“Vivere il carisma e la missione del Carmelo oggi”
Intervento al Capitolo Generale OCarm
16 settembre 2013
Carissimi fratelli nel Carmelo,
essere Superiore Generale di una famiglia religiosa è, come ben sapete, impresa ardua e, a
mio parere, poco desiderabile dal punto di vista umano. Tuttavia, anche un servizio, a cui non
manca l’esercizio dell’ascesi e dell’abnegazione evangelica, ha le sue gioie e le sue consolazioni.
Tra queste metterei al primo posto l’opportunità di sperimentare in modo diretto e profondo tutta la
bellezza e ricchezza della nostra famiglia. Nessuno forse come il padre, chiamato a presiederla, può
parlare con altrettanta convinzione e consapevolezza della grazia di essere fratelli nel Carmelo, di
essere famiglia riunita con Maria intorno alla persona di Gesù Signore. L’invito che mi avete rivolto
a partecipare al vostro Capitolo Generale fa parte di questa esperienza di grazia, e di tutto cuore vi
ringrazio per l’onore che mi fate e per la fraternità che mi dimostrate. Devo dire che, dopo quasi
cinque anni di cammino comune dei due Definitori Generali, mi sento un po’ di casa in mezzo a
voi. E scopro ogni giorno di più che il Carmelo è una casa che ha moltissime stanze, molte di più di
quante non pensassi. Insomma, potrei dire anch’io – con la grandiosità del principe del Gattopardo
– che abito in un palazzo, del quale non conosco ancora tutte le stanze. Ma mi affretto ad
aggiungere, a scanso di equivoci, che sono pronto a metterne un po’ di esse a disposizione di chi ne
ha bisogno, come ci ha suggerito qualche giorno fa papa Francesco.
Il cuore della missione carmelitana
Al centro della riflessione del vostro Capitolo avete posto il tema della missione del
Carmelo nella chiesa e nel mondo di oggi. Il Santo Padre, nel sostanzioso messaggio che vi ha
inviato, fa un’affermazione che mi ha colpito quando dice: “Nella vostra Regola c’è il cuore della
missione carmelitana di oggi”. È un richiamo a cercare la vera novità nel cuore della nostra identità,
che – pur rimanendo sempre la stessa – va crescendo e maturando nel corso dei secoli, assumendo i
problemi e le opportunità, le gioie e le ansie di ogni epoca e generazione. Mi pare una indicazione
metodologica preziosa, che deve essere accolta e valorizzata. Spesso, nel mutare del nostro mondo e
della nostra cultura, ci lasciamo prendere da un’ansia di cambiamento e di innovazione. Cerchiamo
soluzioni veloci ai problemi che incontriamo, quasi inseguendo il mondo nel suo efficientismo. In
realtà, però, le uniche soluzioni reali sono quelle che scaturiscono da un cammino, necessariamente
lento, di approfondimento e di maturazione del nostro essere. Prima ancora di chiederci: “che cosa
dobbiamo fare?”, sarà bene porci la domanda più radicale che santa Teresa si pone nel Cammino di
perfezione (4,1): “come dovremo essere?”. In questo senso capisco perché il papa proponga ai
carmelitani un cammino che giunge alla missione passando attraverso la contemplazione, un
cammino certamente austero e radicale, lontano dagli allettamenti del mondo, ma proprio per questo
aperto all’ascolto della Parola di Dio, all’assimilazione della sua logica e alla condivisione della sua
sapienza.
Tutta la Regola del Carmelo è cuore e fondamento della nostra missione, in quanto tutto in
essa è orientato a una vita vissuta “nell’ossequio di Gesù Cristo”, e cioè in una relazione con Lui,
senza riserve, senza condizioni, senza limitazioni. È una vita “presa” da Gesù Cristo, da lui ferita,
per dirla con Giovanni della Croce, e per questo viva solo in Lui e con Lui. Spero che a un figlio di
santa Teresa si perdonino questi accenti mistici, ma credo che effettivamente la missione del
Carmelo abbia questa intonazione o questa coloritura mistica.
Consentitemi, a questo proposito, una piccola divagazione storica. Mi sembra interessante e
non casuale che la più celebre icona moderna dell’esperienza mistica, e cioè l’Estasi di santa Teresa
del Bernini, si trovi in un luogo legato strettamente alla storia delle missioni. Infatti, come molti di
voi sapranno, la nostra chiesa romana di Santa Maria della Vittoria sorse originariamente, insieme
al convento, per ospitare il seminario delle missioni dell’Ordine, proprio sul luogo dove esisteva
una cappella dedicata a san Paolo, all’apostolo missionario per eccellenza. Poi la battaglia della
Montagna Bianca nel 1620 determinò il cambiamento del titolo della chiesa da san Paolo a Santa
Maria della Vittoria. Il seminario delle missioni restò comunque qui per circa cinquant’anni, dal
1613 al 1663, quando fu trasferito a San Pancrazio. Pertanto, quando il Bernini eseguì il gruppo
marmoreo raffigurante l’estasi di santa Teresa, tra il 1647 e il 1652, sapeva di collocarlo in una
chiesa frequentata da missionari, che avrebbero speso la vita per portare il vangelo in regioni per
quei tempi favolosamente lontane come la Persia e Goa in Asia e in Europa, Cracovia e Praga.
Dunque la forza dell’amore di Cristo, raffigurata dal Bernini nel moto ascensionale del rapimento
mistico, veniva posta di fronte a giovani missionari, come fonte di ispirazione e oggetto di
contemplazione per loro, chiamati a manifestare l’urgenza di quell’amore in un altro modo,
slanciandosi verso le periferie del mondo, per raggiungere ed abbracciare anche i più lontani. In
entrambi i casi, nell’elevazione verticale di Teresa, come nello spaziare geografico dei missionari
carmelitani, è lo stesso fenomeno che si verifica: l’accoglienza dell’amore di Dio manifestato in
Cristo Gesù fa saltare gli schemi, fa superare i confini, fa varcare le frontiere con mistica agilità.
Varcare una frontiera
Se dovessimo dare una definizione della missione, che tenga conto non solo della sua
dimensione teologica, ma anche del suo “impatto” esistenziale, direi che si può parlare di missione
tutte le volte che siamo posti di fronte alla sfida di “varcare una frontiera”. Istintivamente siamo
portati ad associare la missione con l’esperienza del viaggio e dell’avventura. In realtà, però, ciò
che veramente caratterizza la missione è il passaggio da un territorio che ci appartiene a un
territorio che ci è estraneo, al quale vogliamo e ci sforziamo di appartenere. In questo senso, c’è una
frontiera da superare, che non è necessariamente geografica, ma può essere socio-economica,
culturale, etnica e – sempre più frequentemente – generazionale. Superare una frontiera fa paura. È
un atto che richiede coraggio di superare una resistenza da parte dell’ambiente, forza interiore per
distaccarsi da ciò che ci rassicura e protegge, e soprattutto desiderio di raggiungere l’altro, di farsi
prossimo. Ma prima di ogni altra cosa è un atto teologale, non di uomini umanamente forti e
virtuosi, bensì l’atto di poveri che credono, ossia affidano la loro vita nelle mani di un Dio da cui si
sanno amati e accompagnati.
Vorrei sottolineare questa radice teologale della missione. Il cristiano, il religioso non è
missionario perché vuole esserlo, non è missionario solo perché è sensibile alle questioni sociali,
perché desidera una vita più povera e radicale o perché ama l’avventura o ha bisogno di fuggire da
un disagio che sta vivendo nel suo ambiente. Certo, motivazioni di questo tipo sono spesso presenti
in una scelta missionaria e hanno il loro valore, ma – come tutte le “ragioni” umane – hanno
bisogno di purificazione e maturazione. La missionarietà più autentica e radicale non viene dalla
carne, ma dallo Spirito, e cioè dal vincolo che ci unisce a Gesù Cristo. Per questo è impossibile
essere veramente cristiani e non essere missionari. Io sono missionario nella misura in cui non mi
appartengo più, non sono più padrone della mia vita, ma la ricevo da lui, rinnovata nel suo senso e
nella comprensione che io ho di me stesso. La mia missione è il prolungamento della missione che
Gesù ha compiuto nei miei confronti, venendo fino a me, incontrandomi e facendomi suo in una
relazione di alleanza che cambia il percorso della mia esistenza. Se la mia vita non la vivo più da
solo, come individuo, ma l’unico senso del mio vivere è di essere una “vita in Cristo”, come dice
Paolo, è impensabile che tale vita non sia una vita “mandata”, “inviata”. Quel che von Balthasar
dice di Gesù, e cioè che la sua persona coincide con la sua missione, per cui il suo essere è in realtà
un essere-mandato, vale anche per ogni uomo che vive in Cristo, per ogni creatura nuova, rinata
come membro del corpo di Cristo.
Tali considerazioni cristologiche e antropologiche non sono puramente speculative, ma
servono a rimettere alla base della missione l’appartenenza a Gesù, l’alleanza con Lui, l’obbedienza
alla sua volontà. Come la vocazione non è una scelta, ma un essere scelti, così la missione non è
una decisione nostra, un andare armati di coraggio e buona volontà, ma è la risposta obbediente a
chi ci manda, privi di sicurezze umane, privi di virtù e di mezzi, ma saldamente fondati nella sua
promessa: Io sarò con te.
Si comprende facilmente quindi come la missione debba costantemente attingere forza e
motivazione, luce e discernimento dal dialogo del missionario con il Signore che lo ha inviato.
Troppo spesso pensiamo alla missione come a un’opera da fare, da sviluppare con criteri umani, e
non diamo spazio a ciò che il Signore cerca di dirci, di suggerirci nel silenzio della preghiera, nel
profondo della nostra coscienza o anche nel discernimento della comunità riunita nel suo nome, nel
mezzo della quale Egli ha promesso di essere presente. Procedendo secondo i nostri schemi abituali,
rischiamo di non vedere altre modalità di presenza e di annuncio, probabilmente più profetiche e
più in sintonia con la nostra vocazione carmelitana.
Una missione timida
Confesso che, girando il mondo in questi anni, ho incontrato tanti confratelli che lavorano
sodo, che fanno sacrifici per assicurare alla gente la predicazione della Parola, la catechesi, i
sacramenti, a volte in situazioni molto difficili, percorrendo a piedi decine di chilometri,
affrontando il caldo e il freddo, le malattie e i disagi di una vita priva delle comodità del nostro
mondo occidentale. Di tutto questo rendo grazie a Dio e ai miei fratelli. Al tempo stesso, non posso
nascondere l’impressione che la missione ha spesso il volto di un lavoro pastorale parrocchiale, con
il quale si viene in aiuto a chiese povere di clero e ricche di fedeli. Non si vede in che cosa consista
lo specifico o il nuovo della missione. È evidente la diversità derivante dalle differenti condizioni
socio-economiche e culturali, ma la missione è solo questo? Si tratta solo di spostare in altri luoghi
ciò che facciamo nelle nostre chiese del mondo occidentale? E del resto, anche nel nostro vecchio
mondo di antica tradizione cristiana, è sufficiente ciò che stiamo facendo nelle nostre chiese e
comunità, per considerarci in missione? Quali sono le frontiere che stiamo varcando, se è vero che
questo è il carattere distintivo di una missione?
Forse la cosa vi parrà un po’ bizzarra, ma non riesco a dissociare l’idea del varcare,
oltrepassare una frontiera dall’esperienza della lotta. Le frontiere sono generalmente protette e non
si possono attraversare senza ingaggiare una lotta con i custodi, con coloro che ci tengono separati.
Ciò che distingue una pastorale ordinaria, una tranquilla amministrazione delle strutture ecclesiali,
dalla missione è proprio, a mio parere, la lotta. In questo senso, la missione realizza la parola di
Gesù: “Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10,34). La spada di Gesù è,
evidentemente, rivolta contro i nemici dell’uomo e del progetto di Dio. Ma che Gesù portasse la
spada è tanto vero che lo hanno ammazzato. La sua missione era considerata un pericolo reale,
qualcosa che destabilizzava l’ordine costituito e pertanto doveva essere fermata a tutti i costi.
Sappiamo anche che seguire Gesù fino a questo punto è possibile solo grazie a un dono dello
Spirito, che è capace di trasformare uomini inermi e deboli in modelli di fortezza e di coraggio.
Nel dire che la missione cristiana ha sempre un aspetto di lotta, di conflitto contro potenze
nemiche, non sto esprimendo nessuna opzione teologica o ideologica. Cerco solo di collocare nella
storia il nostro essere cristiani e di fare memoria della forza di impatto che ha l’annuncio o anche la
semplice testimonianza del Regno di Dio e del Vangelo di Gesù Cristo nel mondo. Se penso alla
regione del mondo che in questo momento sta creando maggiori preoccupazioni, il Medio Oriente,
non posso dimenticare i testimoni cristiani, che sono morti lì, combattendo la pacifica battaglia di
una fraternità che varca (trasgredisce) i confini delle religioni. Penso ovviamente in modo
particolare ai martiri di Tibhirine, ma non solo a loro. In qualche modo, chiunque ama davvero
corre dei rischi, entra in terreni protetti e si avvicina “minacciosamente” all’altro. Questo
avvicinamento è possibile solo a patto di separare l’umanità dell’altro da ciò che la tiene
prigioniera. In questo senso la missione e l’annuncio del vangelo non possono essere disgiunti da
una “liberazione” dell’uomo da ciò che lo imprigiona e separa dalla sua stessa umanità.
Mi pare che in questo senso la nostra missione sia un po’ timida, un po’ ingessata nelle
forme di una pastorale ordinaria, di parrocchia e sacramenti. È come se mancasse il “fuoco” di Elia
o quello di cui parla Gesù, la fiamma che illumina e riscalda l’uomo, ma anche brucia ciò che si
oppone alla volontà di Dio. Mi domando se questo fuoco c’è dentro di noi o non si è ridotto a
qualche fiammella, che cova sotto la cenere. Dobbiamo soffiare su questo fuoco, o meglio: lasciare
che lo Spirito soffi su di esso perché la fiamma divampi nuovamente e si sprigioni al di fuori di noi.
Papa Francesco sta lanciando a tutta la Chiesa la sfida di “uscire da se stessa”. Una Chiesa
che si ripiega su se stessa, che si guarda allo specchio, si ammala, si corrompe. Andare verso l’altro
in un dinamismo di missione è ciò che rende la Chiesa viva e sana. Papa Francesco diceva, quando
era ancora il cardinal Bergoglio, che il Gesù che è dentro la Chiesa, che è dentro i cristiani, bussa
non dall’esterno, ma dall’interno perché noi gli apriamo la porta e lo lasciamo uscire, lo lasciamo
continuare la sua missione verso il mondo, verso le periferie più lontane. Dobbiamo ritrovare la
gioia, la forza e il coraggio di evangelizzare, di annunciare la buona notizia, che non è innanzitutto
una dottrina, ma una persona, come ci ha ricordato tante volte papa Benedetto. “Quando incontro
Gesù, quando scopro fino a che punto sono amato da Dio e salvato da Lui, nasce in me non solo il
desiderio, ma la necessità di farlo conoscere ad altri”.
Il Carmelo, proprio perché centrato sulla relazione con Gesù, con la sua umanità risorta, ha
un contributo importante da dare alla Chiesa nella sua missione e nella nuova evangelizzazione.
Teresa di Gesù, Teresa di Gesù Bambino e tanti nostri fratelli e sorelle ce lo dimostrano e ci
chiamano a essere all’altezza della nostra vocazione. È facile scoraggiarsi, è una tentazione
frequente quella di abbassare la mira, di ridurre il nostro orizzonte a dimensioni domestiche, che ci
rassicurano. Ma non per questo siamo venuti al Carmelo. Siamo venuti per amare e questo non può
avvenire senza un dono della vita che testimoni quanto questa vita sia stata amata e sia degna di
amore.
Missione e identità
Un altro aspetto della “timidezza” della nostra missione è la sua debole caratterizzazione
carismatica. A volte si ha l’impressione che l’identità carmelitana non possa essere vissuta in
situazioni di missione o che comunque richieda un drastico ridimensionamento. Ciò è paradossale
perché la missione dovrebbe rappresentare invece la maturazione e il compimento di tale identità.
Se pensiamo, ad esempio, a Teresa di Gesù o a Teresa di Gesù Bambino, non possiamo certamente
sostenere che il loro zelo missionario tolga qualcosa o indebolisca la loro identità di carmelitane
scalze. Tutto il contrario, e ciò proprio perché in questo amore missionario è la persona di Gesù che
entra più prepotentemente in loro e condivide in modo più pieno il suo essere con loro. La missione
del Carmelo dovrebbe essere così come la descrive Teresa, in modo particolare nella seconda delle
Esclamazioni1: lasciare Gesù, per possederlo più pienamente, poiché possederlo significa diventare
come lui, che si è privato di ogni possesso per amore degli altri. È per questo che la missione
appartiene intrinsecamente al nostro carisma: non possiamo vivere “nell’ossequio di Gesù Cristo”
se questo “ossequio” non diventa anche “ossequio” e servizio di ogni uomo, di ogni donna, per cui
Gesù Cristo ha versato il suo sangue.
1 “¡Oh Jesús mío!, cuán grande es el amor que tenéis a los hijos de los hombres, que el mayor servicio que se os puede
hacer es dejaros a Vos por su amor y ganancia y entonces sois poseído más enteramente; porque aunque no se satisface
tanto en gozar la voluntad, el alma se goza de que os contenta a Vos y ve que los gozos de la tierra son inciertos, aunque
parezcan dados de Vos, mientras vivimos en esta mortalidad, si no van acompañados con el amor del prójimo. Quien no
le amare, no os ama, Señor mío; pues con tanta sangre vemos mostrado el amor tan grande que tenéis a los hijos de
Adán”.
Anche quando si parla di inculturazione del carisma, del suo adattamento ai diversi contesti
socio-culturali, la condizione previa è che il carisma sia vissuto fino in fondo, e che l’assimilazione
di esso sia così profonda da consentire la sua espressione in forme nuove e diverse da quelle finora
sperimentate. Purtroppo, non posso dire che ciò sia frequente. I rapporti delle visite pastorali
attestano più spesso il monotono ripetersi delle stesse problematiche sotto tutte le latitudini che le
variegate espressioni del carisma nelle diverse culture. Problemi e peccati sono gli stessi
dappertutto e non sono da imputare alle culture, quanto alla condizione umana, alla sua fragilità e
imperfezione. Il male è ripetitivo: è solo il bene che è creativo e plurale. Detto in termini più
concreti e prosaici: spesso più che trapiantare il nostro carisma in altre regioni, riproduciamo altrove
le problematiche irrisolte della nostra umanità, del nostro stile di vita religiosa, del nostro vissuto
comunitario.
Ricordo quel che mi disse un Superiore Generale durante uno degli incontri dell’USG: il
nostro errore è stato aver dato più importanza alla propagazione dell’Ordine che alla trasmissione
del carisma. Ho apprezzato questa capacità di autocritica, che apre a una riflessione più
approfondita e a un diverso modo di impostare la missione. La missione, in Europa, come in Africa
o in Asia o in America, si dovrebbe realizzare a partire dalla testimonianza di alcuni valori vissuti,
che trascendono le culture e che per questo sono comunicabili e incarnabili in contesti diversi,
geografici, sociali o generazionali. Quali sono per noi questi elementi caratterizzanti il carisma
carmelitano, che ci spingono verso la missione? Infatti, se sono beni a noi affidati, sono essi stessi
che ci fanno missionari, per il desiderio di renderne partecipi anche altri. Se un carmelitano va in
missione, che cosa porta con sé? Qual è la sua maniera di annunciare che il Regno di Dio è vicino, è
già qui in mezzo a noi? Suppongo che tutti siamo d’accordo che l’esperienza della prossimità di Dio
nella preghiera e nella vita fraterna sono i primi e fondamentali elementi. E come realizzare una
autentica vita di preghiera e di fraternità senza una altrettanto autentica povertà, distacco dal mondo
e umile disponibilità al servizio? Ecco di queste cose dovrebbe essere intessuta l’umanità del
missionario, il quale allora – come dice il vangelo – non avrebbe bisogno di portare con sé altro
corredo, perché questo è sufficiente per la missione: avere una esperienza del Dio vivo, alla cui
presenza noi stiamo.
Si impone allora un cambio di mentalità. Come dicevo all’inizio, la domanda fondamentale
non è: che cosa andiamo a fare?, ma: chi sono io e che cosa porto nella missione? Qual è il mio
annuncio del vangelo, fatto non di parole, ma di testimonianza di vita?
Io non credo che i nostri ordini religiosi abbiano bisogno di moltiplicare le presenze (al
contrario, in molti luoghi siamo costretti a ridurle). Non abbiamo bisogno di “altre comunità”, ma di
“nuove comunità”, ossia di comunità di testimonianza, capaci di presentare al mondo il vangelo
letto con gli occhi carmelitani, la persona di Gesù amata con il cuore di un carmelitano. Forse è
troppo semplice, ma in fondo anche il vangelo lo è.
P. Saverio Cannistrà ocd