domenica 22 dicembre 2013

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Calliope Onlus Gruppo Luce

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Calliope Onlus Gruppo Luce
Agricoltura Sociale: si intende l'insieme di quelle attività, esperienze, programmi e interventi, nei quali vengono condotte attività agricole (coltivazione di ortaggi e piante da frutto, allevamento di animali principalmente da carne e da uova e trasformazione di prodotti agroalimentari) che coinvolgono attivamente i disabili, finalizzate al miglioramento delle condizioni di vita, al recupero terapeutico e all'inclusione sociale e lavorativa di soggetti a rischio di marginalità.

Calliope Onlus Gruppo Luce



mercoledì 11 dicembre 2013

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Counseling di Chirologia Tarot

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Counseling di Chirologia Tarot: Counseling di Chirologia Tarot Per conoscere te stessa attraverso lo studio e l’analisi degli elementi presenti nelle tue mani. Chi ...

Counseling di Chirologia Tarot

Per conoscere te stessa attraverso lo studio e l’analisi degli elementi presenti nelle tue mani. Chi sei e che cosa puoi fare per ottenere Gioia, Salute e Lavoro. Nelle tuo corpo risiedono tutte le virtù naturali e soprannaturali e grazie al riequilibrio della tua Energia interna sarai più Forte e Bella.

  Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 e-mail enricopallocca@gmail.com

Counseling di Chirologia Tarot



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martedì 10 dicembre 2013

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Counseling Chirologia Tarot

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Counseling Chirologia Tarot
Counseling di chirologia Il termine: Counseling è una parola inglese che richiama alla mente qualcosa che ha che fare con la consulenza, il consultare, il consigliare. Definizione: Il counseling è una relazione d'aiuto, è un processo in cui il consulente (counselor) ha lo scopo di massimizzare il benessere dell'individuo attraverso il potenziamento delle sue risorse. Consulente e cliente: Nel counseling i due attori si chiamano consulente e cliente e non terapeuta e paziente o esperto e allievo, proprio per sottolineare la qualità della relazione di counseling nella quale è il cliente che sceglie e decide di farsi aiutare, ma non abdicherà mai né alla sua libertà, né alla sua responsabilità nella soluzione dei suoi problemi. Alla base del counseling: C'è l'idea che se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è di dirle cosa fare o trovare delle soluzioni, ma aiutarla a comprendere il suo vissuto, la sua situazione, assumendosi pienamente su di sé la responsabilità delle scelte da fare. La relazione d'aiuto ha come finalità principale quella di restituire alla persona in difficoltà autonomia e autostima, che in parole povere non sono altro che l'abilità di cavarsela autonomamente di fronte alle difficoltà e imprevisti della vita, e alle inevitabili crisi connesse al passaggio da una fase all'altra del ciclo vitale. L'intervento d'aiuto cerca di portare il soggetto alle soglie dell'azione, è aiutato ad autocomprendersi, ad esplorare il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti, a vedere chiaramente il ventaglio delle scelte che gli si prospettano, delle competenze che la situazione richiede e dei cambiamenti possibili, la responsabilità dell'azione è in ogni caso sua. Quali sono le cose che possono sconvolgere l'ordine che abbiamo sempre dato alla nostra vita?: Le più varie, eventi tragici come la perdita di un lavoro, o la necessità di riciclarci, una separazione, un lutto, una malattia, oppure piccoli avvenimenti all'apparenza di poco conto, che in realtà sono la fatidica goccia che fa traboccare il vaso e lo stress accumulato e non più contenuto ci sommerge. Critici e scatenanti possono essere anche gli inevitabili passaggi legati all'età, come la scelta degli studi, la genitorialità, il pensionamento, la maternità e così via, eventi molto intensi e coinvolgenti che possono essere fonte di gran gioia o al contrario di gran turbamento e disorientamento a secondo del momento e delle condizioni in cui siamo quando ci capitano. In conclusione il cliente del counseling siamo tutti noi, quando non ce la facciamo da soli ed abbiamo bisogno d'aiuto. Chirologia: Il termine nasce dall'unione di due parole d'origine greca "kheir" (mano) e "logos" (qui nel senso di discorso, meglio trattazione). Il "Grande dizionario della Lingua Italiana" del Battaglia (Utet-Torino) ne dà questa definizione: "Scienza che tenta di dedurre i dati fisico-psicologici di una persona dallo studio della mano". Non predico il futuro "Ma" oriento la persona, seguendo la via che mi fornisce l'interpretazione di tutte le forze create da ciascuno dei segni e degli elementi che si possono leggere dall'analisi di una mano. Le forze che parlano al chirologo attraverso la mano non sono altro che l'essenza della nostra personalità, delle nostre azioni. Non predico il futuro: "Perché" fare previsioni è rischioso e crea delle trappole esistenziali e psicologiche in individui già intrappolati nella loro storia personale, da cui non sanno uscire. Se una predizione "positiva" può essere gratificante, non è detto che non sia illusoria, così come una predizione "negativa" può diventare un'immagine in cui l'individuo tende ad identificarsi, facendola avverare. Il counseling di chirologia: "Non si" occupa di previsioni d'eventi che sono solo tendenze ad accadere, ma di analizzare la struttura del carattere delle persone, il loro temperamento, le loro potenzialità, i loro talenti e il loro Talento individuale, in pratica la loro vera natura seppellita sotto infinite zavorre. Analizza anche i punti deboli sia a livello psicologico che fisico, l'orientamento vocazionale, la direzione e le modalità espressive dei sentimenti, delle emozioni e della sessualità. Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommasod'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 e-mail enricopallocca@gmail.com

Counseling Chirologia Tarot



mercoledì 6 novembre 2013

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Santa Maria della Vittoria.Vi aspettiamo ogni prim...

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Santa Maria della Vittoria.Vi aspettiamo ogni prim...: Santa Maria della Vittoria.Vi aspettiamo ogni prima domenica del mese alle ore 16.30 500 anni dalla nascita di Teresa di Gesù. 500 ...

Santa Maria della Vittoria.Vi aspettiamo ogni prima domenica del mese alle ore 16.30



Santa Maria della Vittoria.Vi aspettiamo ogni prima domenica del mese alle ore 16.30
500 anni dalla nascita di Teresa di Gesù. 500 anni di storia carmelitana nel centenario del 2015. Se siamo in questa fraternità, non eventuale o passata ma qui ed ora é perché Lui ci ha chiamati. É un atto di abbandono alla volontà di Dio che é per se stesso un atto di fede. Siamo qui per l'intercessione dei Santi del Carmelo. Scoperta di Dio dentro il cielo della mia anima. I Santi del Carmelo non si fermano alla superficie del silenzio interiore ma vanno fino in fondo. Simbologia acqua attraversa tutta l'opera Santa di Teresa. É finita l'ora di un cristianesimo personalistico. Vivere una fede comunitaria e personale. Il ponte di collegamento dal castello interiore con le relazioni spirituali di Santa Teresa é sorretto da pilastri. Eccoli: P1 seste mansioni cap 1 quanto più grandi sono le grazie che il Signore comincia a comunicare tanto più sono gravi i travagli. P2 seste mansioni cap 7 Gravissimo errore quando non ci si procura di avere sempre davanti l'umanità di Gesù Cristo uomo. Contemplare l'umanità di Gesù Cristo. P3 seste mansioni cap 10 si, si ha ragione Gesù Cristo di volere che tutti perdonino qualunque offesa ricevuta. Finché non subentra la volontà di perdonare non si fa un passo nella vita cristiana, un passo e dire uno solo. Volontà di sciogliere i nodi P4 settime mansioni cap 2 possiamo comparare l'unione dell'anima a dio a due candele di cera unite insieme così perfettamente da formare una sola fiamma. Umiltà distacco affettivo e effettivo amore del prossimo astensione dal peccato. Giovanni della Croce diceva "un uccello non può volare anche se legato a un filo molto sottile" Santa Teresa si rivolge a noi. Per il grande desiderio che ho nell'avere parte nell'aiutarvi mi voglio sottomettere a tutto ciò che insegna la chiesa cattolica romana Prossimo incontro 1 dic ore 16.30

martedì 5 novembre 2013

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Albania Vivere il carisma e la missione del Carmel...

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: Albania Vivere il carisma e la missione del Carmel...: “Vivere il carisma e la missione del Carmelo oggi” Intervento al Capitolo Generale OCarm 16 settembre 2013 Carissimi f...

Albania Vivere il carisma e la missione del Carmelo oggi P. Saverio Cannistrà ocd



“Vivere il carisma e la missione del Carmelo oggi” Intervento al Capitolo Generale OCarm 16 settembre 2013 Carissimi fratelli nel Carmelo, essere Superiore Generale di una famiglia religiosa è, come ben sapete, impresa ardua e, a mio parere, poco desiderabile dal punto di vista umano. Tuttavia, anche un servizio, a cui non manca l’esercizio dell’ascesi e dell’abnegazione evangelica, ha le sue gioie e le sue consolazioni. Tra queste metterei al primo posto l’opportunità di sperimentare in modo diretto e profondo tutta la bellezza e ricchezza della nostra famiglia. Nessuno forse come il padre, chiamato a presiederla, può parlare con altrettanta convinzione e consapevolezza della grazia di essere fratelli nel Carmelo, di essere famiglia riunita con Maria intorno alla persona di Gesù Signore. L’invito che mi avete rivolto a partecipare al vostro Capitolo Generale fa parte di questa esperienza di grazia, e di tutto cuore vi ringrazio per l’onore che mi fate e per la fraternità che mi dimostrate. Devo dire che, dopo quasi cinque anni di cammino comune dei due Definitori Generali, mi sento un po’ di casa in mezzo a voi. E scopro ogni giorno di più che il Carmelo è una casa che ha moltissime stanze, molte di più di quante non pensassi. Insomma, potrei dire anch’io – con la grandiosità del principe del Gattopardo – che abito in un palazzo, del quale non conosco ancora tutte le stanze. Ma mi affretto ad aggiungere, a scanso di equivoci, che sono pronto a metterne un po’ di esse a disposizione di chi ne ha bisogno, come ci ha suggerito qualche giorno fa papa Francesco. Il cuore della missione carmelitana Al centro della riflessione del vostro Capitolo avete posto il tema della missione del Carmelo nella chiesa e nel mondo di oggi. Il Santo Padre, nel sostanzioso messaggio che vi ha inviato, fa un’affermazione che mi ha colpito quando dice: “Nella vostra Regola c’è il cuore della missione carmelitana di oggi”. È un richiamo a cercare la vera novità nel cuore della nostra identità, che – pur rimanendo sempre la stessa – va crescendo e maturando nel corso dei secoli, assumendo i problemi e le opportunità, le gioie e le ansie di ogni epoca e generazione. Mi pare una indicazione metodologica preziosa, che deve essere accolta e valorizzata. Spesso, nel mutare del nostro mondo e della nostra cultura, ci lasciamo prendere da un’ansia di cambiamento e di innovazione. Cerchiamo soluzioni veloci ai problemi che incontriamo, quasi inseguendo il mondo nel suo efficientismo. In realtà, però, le uniche soluzioni reali sono quelle che scaturiscono da un cammino, necessariamente lento, di approfondimento e di maturazione del nostro essere. Prima ancora di chiederci: “che cosa dobbiamo fare?”, sarà bene porci la domanda più radicale che santa Teresa si pone nel Cammino di perfezione (4,1): “come dovremo essere?”. In questo senso capisco perché il papa proponga ai carmelitani un cammino che giunge alla missione passando attraverso la contemplazione, un cammino certamente austero e radicale, lontano dagli allettamenti del mondo, ma proprio per questo aperto all’ascolto della Parola di Dio, all’assimilazione della sua logica e alla condivisione della sua sapienza. Tutta la Regola del Carmelo è cuore e fondamento della nostra missione, in quanto tutto in essa è orientato a una vita vissuta “nell’ossequio di Gesù Cristo”, e cioè in una relazione con Lui, senza riserve, senza condizioni, senza limitazioni. È una vita “presa” da Gesù Cristo, da lui ferita, per dirla con Giovanni della Croce, e per questo viva solo in Lui e con Lui. Spero che a un figlio di santa Teresa si perdonino questi accenti mistici, ma credo che effettivamente la missione del Carmelo abbia questa intonazione o questa coloritura mistica. Consentitemi, a questo proposito, una piccola divagazione storica. Mi sembra interessante e non casuale che la più celebre icona moderna dell’esperienza mistica, e cioè l’Estasi di santa Teresa del Bernini, si trovi in un luogo legato strettamente alla storia delle missioni. Infatti, come molti di voi sapranno, la nostra chiesa romana di Santa Maria della Vittoria sorse originariamente, insieme al convento, per ospitare il seminario delle missioni dell’Ordine, proprio sul luogo dove esisteva una cappella dedicata a san Paolo, all’apostolo missionario per eccellenza. Poi la battaglia della Montagna Bianca nel 1620 determinò il cambiamento del titolo della chiesa da san Paolo a Santa Maria della Vittoria. Il seminario delle missioni restò comunque qui per circa cinquant’anni, dal 1613 al 1663, quando fu trasferito a San Pancrazio. Pertanto, quando il Bernini eseguì il gruppo marmoreo raffigurante l’estasi di santa Teresa, tra il 1647 e il 1652, sapeva di collocarlo in una chiesa frequentata da missionari, che avrebbero speso la vita per portare il vangelo in regioni per quei tempi favolosamente lontane come la Persia e Goa in Asia e in Europa, Cracovia e Praga. Dunque la forza dell’amore di Cristo, raffigurata dal Bernini nel moto ascensionale del rapimento mistico, veniva posta di fronte a giovani missionari, come fonte di ispirazione e oggetto di contemplazione per loro, chiamati a manifestare l’urgenza di quell’amore in un altro modo, slanciandosi verso le periferie del mondo, per raggiungere ed abbracciare anche i più lontani. In entrambi i casi, nell’elevazione verticale di Teresa, come nello spaziare geografico dei missionari carmelitani, è lo stesso fenomeno che si verifica: l’accoglienza dell’amore di Dio manifestato in Cristo Gesù fa saltare gli schemi, fa superare i confini, fa varcare le frontiere con mistica agilità. Varcare una frontiera Se dovessimo dare una definizione della missione, che tenga conto non solo della sua dimensione teologica, ma anche del suo “impatto” esistenziale, direi che si può parlare di missione tutte le volte che siamo posti di fronte alla sfida di “varcare una frontiera”. Istintivamente siamo portati ad associare la missione con l’esperienza del viaggio e dell’avventura. In realtà, però, ciò che veramente caratterizza la missione è il passaggio da un territorio che ci appartiene a un territorio che ci è estraneo, al quale vogliamo e ci sforziamo di appartenere. In questo senso, c’è una frontiera da superare, che non è necessariamente geografica, ma può essere socio-economica, culturale, etnica e – sempre più frequentemente – generazionale. Superare una frontiera fa paura. È un atto che richiede coraggio di superare una resistenza da parte dell’ambiente, forza interiore per distaccarsi da ciò che ci rassicura e protegge, e soprattutto desiderio di raggiungere l’altro, di farsi prossimo. Ma prima di ogni altra cosa è un atto teologale, non di uomini umanamente forti e virtuosi, bensì l’atto di poveri che credono, ossia affidano la loro vita nelle mani di un Dio da cui si sanno amati e accompagnati. Vorrei sottolineare questa radice teologale della missione. Il cristiano, il religioso non è missionario perché vuole esserlo, non è missionario solo perché è sensibile alle questioni sociali, perché desidera una vita più povera e radicale o perché ama l’avventura o ha bisogno di fuggire da un disagio che sta vivendo nel suo ambiente. Certo, motivazioni di questo tipo sono spesso presenti in una scelta missionaria e hanno il loro valore, ma – come tutte le “ragioni” umane – hanno bisogno di purificazione e maturazione. La missionarietà più autentica e radicale non viene dalla carne, ma dallo Spirito, e cioè dal vincolo che ci unisce a Gesù Cristo. Per questo è impossibile essere veramente cristiani e non essere missionari. Io sono missionario nella misura in cui non mi appartengo più, non sono più padrone della mia vita, ma la ricevo da lui, rinnovata nel suo senso e nella comprensione che io ho di me stesso. La mia missione è il prolungamento della missione che Gesù ha compiuto nei miei confronti, venendo fino a me, incontrandomi e facendomi suo in una relazione di alleanza che cambia il percorso della mia esistenza. Se la mia vita non la vivo più da solo, come individuo, ma l’unico senso del mio vivere è di essere una “vita in Cristo”, come dice Paolo, è impensabile che tale vita non sia una vita “mandata”, “inviata”. Quel che von Balthasar dice di Gesù, e cioè che la sua persona coincide con la sua missione, per cui il suo essere è in realtà un essere-mandato, vale anche per ogni uomo che vive in Cristo, per ogni creatura nuova, rinata come membro del corpo di Cristo. Tali considerazioni cristologiche e antropologiche non sono puramente speculative, ma servono a rimettere alla base della missione l’appartenenza a Gesù, l’alleanza con Lui, l’obbedienza alla sua volontà. Come la vocazione non è una scelta, ma un essere scelti, così la missione non è una decisione nostra, un andare armati di coraggio e buona volontà, ma è la risposta obbediente a chi ci manda, privi di sicurezze umane, privi di virtù e di mezzi, ma saldamente fondati nella sua promessa: Io sarò con te. Si comprende facilmente quindi come la missione debba costantemente attingere forza e motivazione, luce e discernimento dal dialogo del missionario con il Signore che lo ha inviato. Troppo spesso pensiamo alla missione come a un’opera da fare, da sviluppare con criteri umani, e non diamo spazio a ciò che il Signore cerca di dirci, di suggerirci nel silenzio della preghiera, nel profondo della nostra coscienza o anche nel discernimento della comunità riunita nel suo nome, nel mezzo della quale Egli ha promesso di essere presente. Procedendo secondo i nostri schemi abituali, rischiamo di non vedere altre modalità di presenza e di annuncio, probabilmente più profetiche e più in sintonia con la nostra vocazione carmelitana. Una missione timida Confesso che, girando il mondo in questi anni, ho incontrato tanti confratelli che lavorano sodo, che fanno sacrifici per assicurare alla gente la predicazione della Parola, la catechesi, i sacramenti, a volte in situazioni molto difficili, percorrendo a piedi decine di chilometri, affrontando il caldo e il freddo, le malattie e i disagi di una vita priva delle comodità del nostro mondo occidentale. Di tutto questo rendo grazie a Dio e ai miei fratelli. Al tempo stesso, non posso nascondere l’impressione che la missione ha spesso il volto di un lavoro pastorale parrocchiale, con il quale si viene in aiuto a chiese povere di clero e ricche di fedeli. Non si vede in che cosa consista lo specifico o il nuovo della missione. È evidente la diversità derivante dalle differenti condizioni socio-economiche e culturali, ma la missione è solo questo? Si tratta solo di spostare in altri luoghi ciò che facciamo nelle nostre chiese del mondo occidentale? E del resto, anche nel nostro vecchio mondo di antica tradizione cristiana, è sufficiente ciò che stiamo facendo nelle nostre chiese e comunità, per considerarci in missione? Quali sono le frontiere che stiamo varcando, se è vero che questo è il carattere distintivo di una missione? Forse la cosa vi parrà un po’ bizzarra, ma non riesco a dissociare l’idea del varcare, oltrepassare una frontiera dall’esperienza della lotta. Le frontiere sono generalmente protette e non si possono attraversare senza ingaggiare una lotta con i custodi, con coloro che ci tengono separati. Ciò che distingue una pastorale ordinaria, una tranquilla amministrazione delle strutture ecclesiali, dalla missione è proprio, a mio parere, la lotta. In questo senso, la missione realizza la parola di Gesù: “Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10,34). La spada di Gesù è, evidentemente, rivolta contro i nemici dell’uomo e del progetto di Dio. Ma che Gesù portasse la spada è tanto vero che lo hanno ammazzato. La sua missione era considerata un pericolo reale, qualcosa che destabilizzava l’ordine costituito e pertanto doveva essere fermata a tutti i costi. Sappiamo anche che seguire Gesù fino a questo punto è possibile solo grazie a un dono dello Spirito, che è capace di trasformare uomini inermi e deboli in modelli di fortezza e di coraggio. Nel dire che la missione cristiana ha sempre un aspetto di lotta, di conflitto contro potenze nemiche, non sto esprimendo nessuna opzione teologica o ideologica. Cerco solo di collocare nella storia il nostro essere cristiani e di fare memoria della forza di impatto che ha l’annuncio o anche la semplice testimonianza del Regno di Dio e del Vangelo di Gesù Cristo nel mondo. Se penso alla regione del mondo che in questo momento sta creando maggiori preoccupazioni, il Medio Oriente, non posso dimenticare i testimoni cristiani, che sono morti lì, combattendo la pacifica battaglia di una fraternità che varca (trasgredisce) i confini delle religioni. Penso ovviamente in modo particolare ai martiri di Tibhirine, ma non solo a loro. In qualche modo, chiunque ama davvero corre dei rischi, entra in terreni protetti e si avvicina “minacciosamente” all’altro. Questo avvicinamento è possibile solo a patto di separare l’umanità dell’altro da ciò che la tiene prigioniera. In questo senso la missione e l’annuncio del vangelo non possono essere disgiunti da una “liberazione” dell’uomo da ciò che lo imprigiona e separa dalla sua stessa umanità. Mi pare che in questo senso la nostra missione sia un po’ timida, un po’ ingessata nelle forme di una pastorale ordinaria, di parrocchia e sacramenti. È come se mancasse il “fuoco” di Elia o quello di cui parla Gesù, la fiamma che illumina e riscalda l’uomo, ma anche brucia ciò che si oppone alla volontà di Dio. Mi domando se questo fuoco c’è dentro di noi o non si è ridotto a qualche fiammella, che cova sotto la cenere. Dobbiamo soffiare su questo fuoco, o meglio: lasciare che lo Spirito soffi su di esso perché la fiamma divampi nuovamente e si sprigioni al di fuori di noi. Papa Francesco sta lanciando a tutta la Chiesa la sfida di “uscire da se stessa”. Una Chiesa che si ripiega su se stessa, che si guarda allo specchio, si ammala, si corrompe. Andare verso l’altro in un dinamismo di missione è ciò che rende la Chiesa viva e sana. Papa Francesco diceva, quando era ancora il cardinal Bergoglio, che il Gesù che è dentro la Chiesa, che è dentro i cristiani, bussa non dall’esterno, ma dall’interno perché noi gli apriamo la porta e lo lasciamo uscire, lo lasciamo continuare la sua missione verso il mondo, verso le periferie più lontane. Dobbiamo ritrovare la gioia, la forza e il coraggio di evangelizzare, di annunciare la buona notizia, che non è innanzitutto una dottrina, ma una persona, come ci ha ricordato tante volte papa Benedetto. “Quando incontro Gesù, quando scopro fino a che punto sono amato da Dio e salvato da Lui, nasce in me non solo il desiderio, ma la necessità di farlo conoscere ad altri”. Il Carmelo, proprio perché centrato sulla relazione con Gesù, con la sua umanità risorta, ha un contributo importante da dare alla Chiesa nella sua missione e nella nuova evangelizzazione. Teresa di Gesù, Teresa di Gesù Bambino e tanti nostri fratelli e sorelle ce lo dimostrano e ci chiamano a essere all’altezza della nostra vocazione. È facile scoraggiarsi, è una tentazione frequente quella di abbassare la mira, di ridurre il nostro orizzonte a dimensioni domestiche, che ci rassicurano. Ma non per questo siamo venuti al Carmelo. Siamo venuti per amare e questo non può avvenire senza un dono della vita che testimoni quanto questa vita sia stata amata e sia degna di amore. Missione e identità Un altro aspetto della “timidezza” della nostra missione è la sua debole caratterizzazione carismatica. A volte si ha l’impressione che l’identità carmelitana non possa essere vissuta in situazioni di missione o che comunque richieda un drastico ridimensionamento. Ciò è paradossale perché la missione dovrebbe rappresentare invece la maturazione e il compimento di tale identità. Se pensiamo, ad esempio, a Teresa di Gesù o a Teresa di Gesù Bambino, non possiamo certamente sostenere che il loro zelo missionario tolga qualcosa o indebolisca la loro identità di carmelitane scalze. Tutto il contrario, e ciò proprio perché in questo amore missionario è la persona di Gesù che entra più prepotentemente in loro e condivide in modo più pieno il suo essere con loro. La missione del Carmelo dovrebbe essere così come la descrive Teresa, in modo particolare nella seconda delle Esclamazioni1: lasciare Gesù, per possederlo più pienamente, poiché possederlo significa diventare come lui, che si è privato di ogni possesso per amore degli altri. È per questo che la missione appartiene intrinsecamente al nostro carisma: non possiamo vivere “nell’ossequio di Gesù Cristo” se questo “ossequio” non diventa anche “ossequio” e servizio di ogni uomo, di ogni donna, per cui Gesù Cristo ha versato il suo sangue. 1 “¡Oh Jesús mío!, cuán grande es el amor que tenéis a los hijos de los hombres, que el mayor servicio que se os puede hacer es dejaros a Vos por su amor y ganancia y entonces sois poseído más enteramente; porque aunque no se satisface tanto en gozar la voluntad, el alma se goza de que os contenta a Vos y ve que los gozos de la tierra son inciertos, aunque parezcan dados de Vos, mientras vivimos en esta mortalidad, si no van acompañados con el amor del prójimo. Quien no le amare, no os ama, Señor mío; pues con tanta sangre vemos mostrado el amor tan grande que tenéis a los hijos de Adán”. Anche quando si parla di inculturazione del carisma, del suo adattamento ai diversi contesti socio-culturali, la condizione previa è che il carisma sia vissuto fino in fondo, e che l’assimilazione di esso sia così profonda da consentire la sua espressione in forme nuove e diverse da quelle finora sperimentate. Purtroppo, non posso dire che ciò sia frequente. I rapporti delle visite pastorali attestano più spesso il monotono ripetersi delle stesse problematiche sotto tutte le latitudini che le variegate espressioni del carisma nelle diverse culture. Problemi e peccati sono gli stessi dappertutto e non sono da imputare alle culture, quanto alla condizione umana, alla sua fragilità e imperfezione. Il male è ripetitivo: è solo il bene che è creativo e plurale. Detto in termini più concreti e prosaici: spesso più che trapiantare il nostro carisma in altre regioni, riproduciamo altrove le problematiche irrisolte della nostra umanità, del nostro stile di vita religiosa, del nostro vissuto comunitario. Ricordo quel che mi disse un Superiore Generale durante uno degli incontri dell’USG: il nostro errore è stato aver dato più importanza alla propagazione dell’Ordine che alla trasmissione del carisma. Ho apprezzato questa capacità di autocritica, che apre a una riflessione più approfondita e a un diverso modo di impostare la missione. La missione, in Europa, come in Africa o in Asia o in America, si dovrebbe realizzare a partire dalla testimonianza di alcuni valori vissuti, che trascendono le culture e che per questo sono comunicabili e incarnabili in contesti diversi, geografici, sociali o generazionali. Quali sono per noi questi elementi caratterizzanti il carisma carmelitano, che ci spingono verso la missione? Infatti, se sono beni a noi affidati, sono essi stessi che ci fanno missionari, per il desiderio di renderne partecipi anche altri. Se un carmelitano va in missione, che cosa porta con sé? Qual è la sua maniera di annunciare che il Regno di Dio è vicino, è già qui in mezzo a noi? Suppongo che tutti siamo d’accordo che l’esperienza della prossimità di Dio nella preghiera e nella vita fraterna sono i primi e fondamentali elementi. E come realizzare una autentica vita di preghiera e di fraternità senza una altrettanto autentica povertà, distacco dal mondo e umile disponibilità al servizio? Ecco di queste cose dovrebbe essere intessuta l’umanità del missionario, il quale allora – come dice il vangelo – non avrebbe bisogno di portare con sé altro corredo, perché questo è sufficiente per la missione: avere una esperienza del Dio vivo, alla cui presenza noi stiamo. Si impone allora un cambio di mentalità. Come dicevo all’inizio, la domanda fondamentale non è: che cosa andiamo a fare?, ma: chi sono io e che cosa porto nella missione? Qual è il mio annuncio del vangelo, fatto non di parole, ma di testimonianza di vita? Io non credo che i nostri ordini religiosi abbiano bisogno di moltiplicare le presenze (al contrario, in molti luoghi siamo costretti a ridurle). Non abbiamo bisogno di “altre comunità”, ma di “nuove comunità”, ossia di comunità di testimonianza, capaci di presentare al mondo il vangelo letto con gli occhi carmelitani, la persona di Gesù amata con il cuore di un carmelitano. Forse è troppo semplice, ma in fondo anche il vangelo lo è. P. Saverio Cannistrà ocd

mercoledì 30 ottobre 2013

Cenacolo virtuale Risorgeremo



Preghiera della famiglia (si può dire o in forma litanica, come la preghiera dei fedeli con “ASCOLTACI, O SIGNORE”, oppure in cori alterni, come un salmo) Gesù, per intercessione dei Servi di Dio Lelia e Ulisse, [in questo luogo, dove sono conservati i loro resti mortali in attesa della risurrezione], ti chiediamo quanto segue: Che questo nostro incontro ci insegni a vivere lo spirito d’amore che ti manifestavano mamma Lelia e papà Ulisse quando entravano nelle chiese che uscendo da casa non mancavano di visitare. Desideriamo la loro fede, la loro fiducia nella tua divina Provvidenza, che meritò di non far mancare mai nulla alla loro famiglia, anche nei momenti economicamente più difficili. Si trovano ormai a contemplare il tuo Volto e godono la gioia della tua presenza che in terra hanno alimentato con la preghiera e la carità. Insegnaci a pregare come hanno pregato loro e come l’hanno insegnato ai figli. Donaci di comunicare l’importanza della preghiera, soprattutto nelle nostre famiglie, ai più piccoli, a chi si presenta a noi sofferente, in modo da riuscire a amarti e farti amare da tutti come loro. Fa’ che, come loro, la nostra fede sia alimentata dall’Eucarestia, e dalla tua Parola con cui si nutrivano e riuscivano a farne approfittare con l’esempio anche i figli. . Facci essere operatori di bontà, di concordia e di pace, come loro, verso quelli che li incontravano o che cercavano apposta perché bisognosi. Che il loro esempio nel guidare la famiglie nel santo timore di Dio ci aiuti a fuggire il peccato e ad apprezzare lo stato di Grazia, prima di ogni altra cosa. La loro cura nel mantenere l’armonia in famiglia e con il vicinato, contagi il nostro vivere con gli altri nel rispetto e nell’accettazione reciproca.. Che primeggi nella nostra vita la devozione e la fiducia per la Vergine Santissima, da farci sentire coperti dal suo manto, come ripetevano in famiglia.. Anche a noi dona di approfittare dei santi, scegliendoli come patroni e protettori nelle diverse necessità, per seguire e accettare sempre la Volontà di Dio. Ti chiediamo soprattutto la saggezza nell’educare i figli considerandoli come fecero loro, affidati da te, evitando ogni forma di possesso o interesse. Dona alle nostre famiglie più attenzione all’essere che all’avere, più cura per le virtù soprattutto della giustizia e carità, pur nel rispetto della libertà personale. Affidiamo alleo loro intercessione le famiglia in cui manmca il dialogo, in cui si è affievolito l’amore ed è minacciata la fedeltà e la convivenza. Che anche nelle nostre famiglie si abbia più attenzione alla chiesa locale non solo per la frequenza, ma nella collaborazione nell’evangelizzazione. Si risvegli in ogni casa la sacralità della vita con il rispetto del corso normale voluto da Dio, senza rifiuti o decisioni arbitrarie. Concedi infine che la conoscenza di questi, come di tanti altri Servi di Dio, che hanno vissuto nel mondo, stimoli ad una vita più piena di Dio e perciò di santità. . Mamma Lelia e papà Ulisse, comunicateci la fede e l’amore con cui avete vissuto ed otteneteci la speranza nella vita eterna, che voi già state vivendo, con la certezza per tutti nella RISURREZIONE!

giovedì 24 ottobre 2013

Cettina Militello Santa Teresa di Avila carmelitani Calliope onlus



GIORNATA DELLA FAMIGLIA CARMELITANA - TERRITORIO DELLA PROVINCIA ROMANA ANZIO 19 OTTOBRE 2013 Di: Maria Teresa Cristofori Sabato 19 ottobre 2013, insieme a religiosi, religiose, membri delle Fraternità OCDS, di Associazioni e di gruppi di ispirazione carmelitana, ci siamo ritrovati in ANZIO (Roma), nella BASILICA DI S. TERESA DI GESU’ BAMBINO, per celebrare uniti una giornata dedicata a S. TERESA D’AVILA e dare inizio al quinto anno di preparazione al 5° Centenario della sua nascita, avvenuta in Avila (Spagna) il 28 marzo 1515. Dopo esserci soffermati nei precedenti quattro anni a leggere e meditare la Vita, il Cammino di perfezione, le Fondazioni, il Castello interiore, nel corrente anno 2013 – 2014 siamo chiamati leggere e riflettere sulle Opere brevi della Santa: le Lettere, le Relazioni, i Pensieri sull’amore di Dio, le Esclamazioni, le Poesie. Sin dall’arrivo con il bel tempo, abbiamo respirato aria di Famiglia veramente “Carmelitana” per la gentile accoglienza delle consorelle OCDS di Anzio, che hanno offerto a tutti la colazione. Dopo aver pregato l’Ora media in chiesa, ci siamo accomodati in una grande sala per ascoltare la conferenza della teologa e professoressa CETTINA MILITELLO, presentata all’assemblea dal Delegato Provinciale OCD Padre Rocco Visca. Per noi donne è stato confortante sentir parlare una donna al posto del solito conferenziere uomo e la sua presenza ci ha fatto sentire in sintonia con il pensiero della nostra coraggiosa S. Madre. Ella, infatti, pur essendo vissuta in un’epoca in cui le donne non erano considerate affatto, spinta dall’amore, con la sua forte personalità aperta al soffio dello Spirito, riuscì a realizzare, tra mille ostacoli e difficoltà, la riforma del Carmelo divenendo Fondatrice di numerosi monasteri di monache e conventi di frati. La dottoressa Militello, nel presentare un breve cenno biografico su S. Teresa, in difesa del ruolo delle donne, ha citato quanto scrisse la Santa nel suo Cammino di perfezione rivolgendosi, così, al Signore: “Quando eravate su questa terra, lungi d’aver le donne in dispregio, avete anzi cercato di favorirle con grande benevolenza “ e, nel manoscritto conservato all’Escorial, aggiunge: “Avete trovato in esse maggior amore e fede più viva che non negli uomini. Vi era tra loro la vostra Madre SS.ma, che con i suoi meriti ci aiuta e ci ottiene la grazia di portare il suo abito…Non è giusto che proprio oggi si disprezzino cuori virili e virtuosi per il solo fatto che sono di donne” (C 3, 7). Nel commentare alcune delle più note lettere della Santa, la Relatrice ha parlato di quelle indirizzate ai familiari, a grandi personaggi, a frati e a monache, evidenziando che l’interlocutore da lei più amato e preferito è stato senza dubbio Padre Girolamo Gracian. Nella stesura delle lettere S. Teresa si dimostra sempre presente a se stessa e da esse traspare il valore dell’amicizia, la spontaneità, la necessità del sentire comune nella convivenza, il parlare anima con anima. Nel dialogo con la Relatrice, sconcertante è stato l’intervento di una signora, alla quale un direttore spirituale aveva parlato di S. Teresa definendola “isterica”: a mio parere costui era certamente un “semidotto” sprovveduto e superficiale, non conosceva affatto le Opere della nostra Santa, ma solo un banale cliché su di Lei. Un sincero grazie va alla Dottoressa Militello, ai nostri Superiori, alla Comunità di Anzio e soprattutto alle consorelle OCDS che ci hanno ristorato con un delizioso pranzo: la S. Messa ha concluso questa bellissima giornata, trascorsa nella comunione fraterna , con Maria, le due S. Terese, a lode e gloria di Dio.

Arnaldo Pigna La Fede edizioni OCD Calliope onlus



SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI - CENTRO ITALIA “ SAN GIUSEPPE” CORSO DI FORMAZIONE OCDS PER I CONSIGLI DELLE FRATERNITA’ ROMANE E TOSCANE MONECOMPATRI (ROMA), 11 – 12 – 13 OTTOBRE 2013 Di: Maria Teresa Cristofori I Consigli Provinciali OCDS del territorio Romano e Toscano hanno organizzato, per i Consigli di Fraternità, un Corso di formazione OCDS che ha avuto luogo nei giorni 11-12-13 ottobre a Montecompatri, presso la “Casa San Silvestro” dei Religiosi Carmelitani Scalzi. Relatore e conduttore del Corso è stato il Rev.mo Delegato Provinciale OCDS del “Centro Italia” Padre ARNALDO PIGNA, che nella sua esposizione dottrinale ha svolto il seguente Tema: “CON IL CUORE SI CREDE” (Rom 10, 10) – “TOCCARE CON IL CUORE, QUESTO E’ CREDERE” (S. Agostino da LF, 31). P. Arnaldo ci ha parlato della FEDE, come virtù fondamentale che ci consente di metterci in comunicazione con Dio, di ascoltarlo, di lasciarci guidare da Lui e di accogliere Cristo come tesoro della nostra vita, da imitare per dare pienezza alla nostra vita interiore. E’ alla luce della fede che possiamo stabilire un rapporto intimo e profondo con Gesù, che vuole conquistare il nostro cuore, farci innamorare e portarci a ripetere, con S. Paolo: “Io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,19-20). La fede è un dono che va accolto nell’aspetto intellettuale, come capacità di “conoscere”, di stabilire un contatto misterioso con Dio in Cristo Gesù aderendo agli eventi della salvezza e, soprattutto, nell’aspetto affettivo che coinvolge direttamente il cuore, considerato nella Bibbia come il centro dell’interiorità umana e come sintesi della persona capace di sentire, decidere, volere, amare. Non a caso, perciò, l’Apostolo Paolo afferma “ Con il cuore si crede”, concetto riproposto nell’enciclica LUMEN FIDEI da Papa Francesco che, citando S. Agostino, aggiunge “Toccare con il cuore, questo è credere”. La fede, ricevuta in dono nel battesimo, è un seme che va coltivato e che deve crescere nella pratica dei sacramenti, nell’ascolto della Parola incarnata in Gesù ed interiorizzata nella preghiera che ci apre all’incontro con Lui, da accogliere e seguire per corrispondere in pienezza alla nostra vocazione alla santità. Produttivi ed interessanti si sono rivelati i gruppi di lavoro, che hanno favorito ed accresciuto la nostra conoscenza reciproca ed hanno offerto a ciascuno la possibilità di esprimere il proprio pensiero, in un cordiale scambio di idee e di pareri: un valido supporto è stato offerto ai lavori dall’Assistente Provinciale P.Ennio Laudazi e dagli altri partecipanti Religiosi. Apprezzata e assai gradita è stata la presenza per l’intera durata del Corso del Delegato Generale OCDS Padre Francisco Debastiani, che ha presieduto la Celebrazione Eucaristica del giorno 12 ottobre, pronunciando una bellissima omelia proprio nella memoria di Nostra Signora Aparecida, Patrona del Brasile, suo paese di origine. La S. Messa di domenica 13 ottobre, è stata presieduta dal nostro Relatore e Delegato Provinciale OCDS Padre Arnaldo Pigna che, in tale occasione, ha ricordato il suo 50° di Ordinazione Sacerdotale e tutti ci siamo uniti a lui nel ringraziare il Signore per tale lieto evento e per ricordare le tante opere di bene da lui compiute durante la sua vita sacerdotale e religiosa, trascorsa in totale oblazione a Dio ed a servizio dei fratelli. Tutti i partecipanti si sono dimostrati pienamente soddisfatti per i contenuti e l’eccellente validità formativa del Corso frequentato. Nel pranzo finale si sono uniti a noi il Priore ed i Religiosi della “Casa S. Silvestro”, è intervenuto anche il Delegato Provinciale OCD P. Rocco Visca e tutti abbiamo brindato al 50° di Padre Arnaldo, in un reciproco scambio di auguri per un più prospero e santo avvenire di crescita nell’amore e nell’unione fraterna dell’intero Carmelo Teresiano. Maria Teresa Cristofori (Presidente provinciale romana OCDS)

mercoledì 16 ottobre 2013

Arnaldo Pigna La Fede EDIZIONI OCD Calliope onlus



RELAZIONE SINTETTICA CORSO DI FORMAZIONE OCDS (Montecompatri, 11-13 ottobre 2013) La fede è la virtù fondamentale perché è per essa che ascoltiamo Dio e ci lasciamo da Lui guidare; per essa accogliamo Cristo e ci mettiamo a seguirLo percorrendo la sua stessa via. La fede nasce dall'incontro con Cristo che si accoglie come tesoro della vita, e raggiunge la pienezza nella piena conformazione a Lui. Con la fede ci si fida di Gesù e ci si affida a Lui, dall'intimo di sé, dal proprio io profondo, dal proprio cuore. Si stabilisce un rapporto intimo e profondo che si alimenta nella preghiera e si traduce in una vita che, a imitazione della Sua, è attuazione della volontà del Padre, cioè dell'amore con il quale ci avvolge e ci guida. È nel cuore che Gesù ci vuol toccare, ed è il nostro cuore che Egli vuole conquistare. Per questo San Paolo afferma: "Con il cuore si crede" (Rom. 10,10). E Papa Francesco citando S. Agostino: "Toccare con il cuore, questo è credere" (LF 31). Senza questo incontro con Gesù la fede rimane un'astrazione che non influenza la vita. Bisogna aderire a Cristo, alla sua persona per credere davvero, non solo ad un'idea su Cristo. La fede poggia sulla testimonianza degli apostoli che sono stati scelti da Gesù per tale scopo, ma poggia anche sulla comprensione che ne hanno avuto coloro che lungo la storia l'hanno fedelmente accolta e vissuta, trasmettendola alle generazioni successive. La nostra è partecipazione alla fede della comunità ecclesiale ed è nostra responsabilità mantenerla viva e comunicarla. Una fede privata, chiusa in se stessa, non è vera fede. È Cristo che ci comunica la verità (origine della fede); è Cristo la verità che ci viene comunicata (oggetto della fede); è Cristo la ragione per cui crediamo (motivo della fede). Infine Cristo è Colui a cui ci uniamo per credere; infatti la fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione del suo modo di vedere. Gesù è il perfezionatore della fede perché contenuto e rivelazione definitiva di Dio e dei progetti di Dio: chi è Dio e come vive (Trinità); chi vuol essere per noi (Padre e amico); chi siamo noi per Lui (figli ed eredi). La fede intesa come capacità di "conoscere" cioè di stabilire un "contatto " misterioso con Dio in Cristo Gesù, è un seme che abbiamo ricevuto in dono nel Battesimo e che deve crescere. Essa si nutre e cresce nell'ascolto della Parola incarnata che è Gesù. Se meditiamo la Scrittura, e soprattutto la accogliamo nel cuore attraverso i sacramenti e la preghiera; se ci lasciamo da Lui guidare nella vita e Lo imitiamo, la fede ci fa, necessariamente, seguaci. È la sequela che dice l'autenticità della fede e ne misura la perfezione. Questo appare soprattutto nel momento della prova. Per chi crede la croce è la rivelazione suprema di Dio Amore, è attuazione suprema di questo amore nei nostri riguardi, ed è via che ci si offre per entrare in questo mistero di amore e venirne trasfigurati. La fede è ascolto: attenzione a Lui. La fede è preghiera: intimità con Lui. La fede è sequela: imitazione di Lui. La Segreteria Generale

sabato 12 ottobre 2013

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: ArnaldoPigna Convegno ocds. - Montecompatri 11-13 ...

Calliope ONLUS Agricoltura Sociale: ArnaldoPigna Convegno ocds. - Montecompatri 11-13 ...: ArnaldoPigna Convegno ocds. - Montecompatri 11-13 ottobre 2013 Col cuore si crede In quel tempo gli Apostoli dissero al Signore: “A...

ArnaldoPigna Convegno ocds. - Montecompatri 11-13 ottobre 2013


ArnaldoPigna Convegno ocds. - Montecompatri 11-13 ottobre 2013


Col cuore si crede

In quel tempo gli Apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede” (Lc 17,5).


Ci troviamo al termine dell’anno della fede, voluto da Papa Benedetto per stimolare i cristiani a riscoprirla e rinnovarla, in un mondo che va sempre più scivolando verso il totale indifferentismo religioso. L’uomo moderno è troppo superbo e orgoglioso delle proprie conquiste, troppo attaccato ai beni e alle soddisfazioni mondane, per poter credere. Chi ha il cuore pieno di sé e pone al centro di tutto il proprio io non può credere. Chi ha il cuore totalmente occupato dai beni terreni e pone il raggiungimento del danaro come scopo supremo, non può credere. C’è incompatibilità tra Dio e mammona, come c’è incompatibilità tra le pretese dell’io e il primato di Dio. “dove è il tuoo tesoro, là è il tuo cuore”, ha detto il Signore.

Noi abbiamo la fortuna di avere il dono della fede, tuttavia sentiamo che anche noi abbiamo bisogno di fare nostra la richiesta dei discepoli. Il Signore certamente ci ascolterà se cercheremo di vivere questo nostro incontro nella piena disponibilità ad ascoltare ed accogliere la parola che Egli  ci vorrà rivolgere.
Ricordiamo subito, riportando le parole della Lumen Fidei , che “l’ascolto della fede avviene secondo la forma di conoscenza propria dell’amore: è un ascolto personale, che distingue la voce e riconosce quella del Buon Pastore (cfr Gv 10,3-5); un ascolto che richiede la sequela, come accade con i primi discepoli che, sentendolo parlare così, seguirono Gesù (Gv 1,37)” (n. 30).

La fede, nella Bibbia, è legata all’alleanza. Ha per protagonista Dio che intreccia un rapporto di amore con l’uomo; ed è all’interno di questo rapporto che essa sgorga e si sviluppa nell’uomo. Al di fuori di questo rapporto la fede biblica non è pensabile, perché la parola a cui essa aderisce tiene sempre presente la persona che la comunica e attraverso la quale si comunica.
“Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede” (Rm 10, 9-10). Con queste parole l’Apostolo vuol dire che la fede che professiamo nasce e si realizza nel cuore. La fede biblica è una relazione tra persone e in quanto tale ne tocca l’intimità. E’ l’interiorità della persona che nella fede viene coinvolta.
Questa interiorità che noi spesso designiamo con i termine “anima” o “spirito”, la Bibbia preferisce chiamarla “cuore”?  Il cuore o spirito dell’uomo, è il luogo più segreto, la parte più intima, il centro della persona; ed è anche la sua parte suprema, il vertice. Possiamo aiutarci con qualche immagine. Se si pensa ad una piramide rovesciata, lo spirito è il luogo profondo su cui poggia tutto l’essere umano, lo fonda, lo nutre (come il fittone e la radice)  e gli dà senso; se si pensa ad una piramide poggiata sulla base, lo spirito ne è il culmine e la espressione suprema; se si pensa ad un cerchio, lo spirito è il centro da cui promanano e su cui poggiano tutti i raggi che lo sostengono. E’ nel e per il suo spirito o cuore che l’uomo è capace di proiettarsi fuori e oltre se stesso, aperto al trascendente.
Come i sensi sono le doti che l’uomo ha per entrare in contatto diretto con la creazione, così lo spirito per quanto riguarda orizzonti che la trascendono. E’ lì, nel suo spirito, che l’uomo si percepisce fatto e come attratto verso orizzonti senza limiti. E’ a quel livello che il finito si sente misteriosamente in contatto con il fondamento dell’essere. Potremmo dire che lo spirito è, nell’uomo, il “senso” di Dio. Purtroppo, con il peccato, questo “senso” che faceva intuire Dio, è rimasto oscurato. Come un occhio, che è il “senso” della vista, quando non riesce più a vedere a causa di una malattia

Il “cuore”, per la Bibbia, è il centro dell’interiorità umana; non solo luogo dei sentimenti, ma anche pensiero, intelligenza, decisione, determinazione, affetto. E’ il punto unificatore dell’esistenza, luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi, dei grandi orientamenti che danno senso alla storia della vita. Il cuore, in conclusione, è la sintesi della persona capace di conoscere, sentire, decidere, volere, amare. Così si comprende cosa vuol dire S. Paolo quando afferma che “col cuore si crede” (Rm 10,10). E’ l’intimità della persona che viene coinvolta, là dove tutto si riassume e tutto trova il suo fondamento.

Mi pare importante cercare di chiarire meglio ciò che si vuole intendere quando parliamo di “spirito” o di “cuore”. In effetti il termine “spirito” rimane spesso talmente vago da non avere alcun contenuto concreto, mentre il termine “cuore” spesso richiama solo sentimenti ed emozioni.

In concreto, nel “cuore” o “spirito” dell’uomo, possiamo cogliere tre proprietà e funzioni fondamentali: intelletto (conoscenza), coscienza (consapevolezza), volontà (decisione, affezione).

Con il termine “intelletto” vogliamo indicare la facoltà di conoscere del cuore; il cuore conosce, ma in un senso più profondo e vitale del conoscere razionale. Si tratta di un conoscere quasi esperienziale, per partecipazione. Il cuore non conosce pensando e tirando conclusioni attraverso un discorso logico, come fa la ragione, ma conosce intuendo, “contattando”, “sentendo” e “penetrando” la realtà. E’ potere di comprensione e di intuizione, che permette di leggere dentro la realtà, per questo viene chiamato “intelletto” che etimologicamente significa, appunto, leggere dentro (intus legere). Va sottolineato che questa capacità dell’intelletto di capire per “intuizione” non va confusa con quella di capire per “ragionamento” (riflessione e deduzione logica), che è propria della ragione. Le due facoltà non si identificano. Certo, non dobbiamo contrapporre intelletto e ragione perché ambedue aiutano l’uomo a comprendere e a comprendersi, ma non si devono nemmeno confondere. Il medico che ha più conoscenza razionale della madre, spesso conosce il bambino meno di lei. Più che da una riflessione razionale e logica la conoscenza del cuore è piuttosto prodotta da una sorta di connaturalità e di sintonia profonda.

Dentro il cuore, nello spirito dell'uomo, c'è, poi, una facoltà fondamentalissima: la coscienza di sé; per essa l’uomo riflette su se stesso, si vede come in uno specchio, si ri-conosce. E’ la consapevolezza del proprio esserci e del proprio relazionarsi, cioè non chiusi in noi stessi, ma destinati e orientati verso orizzonti che vanno oltre il proprio piccolo mondo.
A questa coscienza “spirituale”, intesa come apertura all’altro e al trascendente, è legata come parte integrante la coscienza “morale” intesa come consapevolezza di ciò che devo (essere e fare), e dei passi da compiere. Per essa io intuisco che sono fatto per la verità, che sono vincolato al bene; che la verità mi trascende e, scoperta, mi si impone; che il bene lo devo fare e che il male lo devo evitare. Questo imperativo della coscienza “morale” che  mi spinge e mi lega alla verità e al bene, mi dimostra che son fatto per andare oltre me stesso, e che  io rispondo alle esigenze del mio essere più profondo solo proiettandomi verso un Bene che mi trascende, solo accettando e inchinandomi ad una Verità che mi sovrasta. Non siamo noi che stabiliamo il bene, ma è il bene raggiunto che ci fa buoni.  Non siamo noi a possedere la Verità, ma è la verità che, raggiunta, ci possiede. Se è sincero, nella sua coscienza l’uomo scopre ed è spinto a confessare che la verità non può essere addomesticata, e che il bene non può essere definito e ridotto alle proprie voglie. L’insopprimibile anelito con cui l’uomo cerca la verità e il bene è chiaro documento che egli è fatto per loro.

E’ evidente che alla coscienza di sé e alla coscienza del proprio dover essere bisogna tornare, se si vuole vivere da persona umana. La consapevolezza  di sé e di essere fatti per il bene che si impone come da farsi, diventa anche consapevolezza della voce di Qualcuno, che risuona dentro, e costringe a prendere posizione e a dare una risposta.  Se uno si apre alla verità e al bene, presto scoprirà che non sono un ideale astratto, ma un Qualcuno: Dio. In effetti, ascoltare la voce che risuona nella coscienza e lasciarsi da essa condurre è già, in qualche modo, una forma di fede.

Lo “spirito”, dicevamo, è apertura all’infinito; nel suo intimo più profondo l’uomo ha un “senso” particolare, che è, appunto, il “senso di Dio”. Quando questo “senso di Dio” si atrofizza, è tutta l’interiorità umana che rischia lo smarrimento e la deformazione. La coscienza stessa perde dentro di sé il suo principale riferimento e interlocutore che è Dio stesso, essa, infatti, è “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” (GS 16). Una delle conseguenze del dissesto psichico è la perdita di contatto con la propria coscienza morale, che è stata drogata e affossata per potersi abbandonare alle proprie voglie senza sentirsi in colpa. Chi si trova in questo stato non può, ovviamente, ricevere il dono della fede. Gli manca il “cuore” per poterla accogliere.

La consapevolezza di sé nel tempo che scorre e nel quale si “distende” la nostra esistenza, noi la chiamiamo “memoria”. E’ essa che dà continuità alla consapevolezza di noi stessi e al nostro essere, per essa mi vedo in cammino ma mi riconosco sempre lo stesso, sono sempre io anche se progressivamente diverso. E’ questa consapevolezza di sé nell’arco del tempo in cui si svolge la vita, che permette all’individuo di costruire e percepire la propria identità personale. Consapevolezza, dunque, è anche capacità di percepirsi come se stessi nel cambiamento, nella continuità del tempo e nella collocazione dello spazio, nella concatenazione degli eventi. E’ in forza di questa straordinaria capacità, di questa memoria, che noi siamo messi in condizione di poter gestire la nostra vita, di costruirla e di portarla a maturazione. E’ in forza della memoria  che noi, in fondo, riusciamo a cogliere la verità. Una memoria che non abbraccia solo la nostra vita, ma che si affaccia e riallaccia alla storia su cui affonda le sue radici. Questa memoria ha un ruolo fondamentale per la comprensione della fede come ricerca di verità. “La domanda sulla verità è, infatti, una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire ad unirci oltre il nostro <io> piccolo e limitato. E’ una domanda sull’origine di tutto, alla cui luce si può vedere la meta e così anche il senso della strada comune” (LF n. 25). Questo aiuta anche a comprendere come la fede non può essere solo un fatto intimistico e individuale, essa affonda le sue radici in una storia, rende partecipi e unisce a tuta una comunità di credenti che la vivono e la trasmettono.

In fine, la terza qualità dello spirito è il potere di scegliere e determinarsi. All’interno dello spirito che si conosce, sente e tende (per una misteriosa attrazione) verso il bene, che conosce e che delibera, nasce l’atto della volontà che costituisce  la espressione e l’orientamento dell’essere più profondo e più intimo della persona. In forza di questo potere io mi decido per il Signore, oppure no; per un qualcuno o qualcun altro; per qualcosa o qualcos’altro. E’ la “volontà” (illuminata dalla intelligenza, mossa dal desiderio e attratta dal bene) che può aprire l'intimo, il segreto che solo l'uomo conosce. Mentre la coscienza-memoria mi dà consapevolezza e continuità, la volontà mi determina ad agire e mi fa, poi, passare in azione; è per essa che io sono capace di aprirmi o di chiudermi, capace di accogliere e di donare, capace di amare.  Potremmo dire che la volontà è il cuore del cuore dell’uomo. La fonte o prima origine da cui sgorga l’atto di amore (tendenza e volontà di bene) che, poi, inonda tutti gli angoli  e le pieghe della persona, fino a raggiungere il corpo con i suoi sensi e le sue attività che, a loro volta, danno e determinano una colorazione specifica, sottolineature e incarnazioni diversificate dell’atto di volontà. Si capisce come è a questo livello che sgorga l’atto di fede come apertura e accoglienza della parola e della persona che ci si comunica

La dimensione spirituale, la più alta della persona, che  (come veniamo dicendo) si esprime nella capacità di intuire (penetrare) la verità, di essere presenti a se stessi, di essere aperti e di determinarsi dall’intimo verso il bene, è stata parecchio oscurata dal disordine prodotto dal peccato. A causa di tale disordine l’intelletto, cioè la parte conoscitiva del cuore, entra nelle tenebre, diventa incapace di stabilire il  contatto con Dio (come, invece, succedeva nel paradiso terrestre!). Lo stesso accade con la coscienza dell’uomo che non percepisce più se stesso come relazione e partecipazione di Dio, e come aperto e orientato verso orizzonti aperti all’infinito; per cui si ritrova prigioniero dell’angusto mondo in cui si è rinchiuso. Quanto alla volontà, non più sufficientemente illuminata, brancola nel buio, e rischia continuamente scelte sbagliate.

Ma, accantonato lo spirito (già reso oscuro dal peccato che ha interrotto il rapporto con Dio), l’uomo diventa incapace di aprirsi al trascendente e di percepirsi in relazione con un Essere superiore. Il buio dello spirito lascia all’uomo solo l'inquietudine e un'aspirazione confusa che è desiderio di dare senso alla vita e insoddisfazione profonda per tutte  le risposte che si infrangono contro la barriera della morte. Senza apertura al trascendente l’unica verità che alla fine rimane è che si vive per morire. Ed è evidente che questa scoperta non può lasciare soddisfatto chi vuol dare un senso alla sua vita. E’ proprio questa insoddisfazione profonda che tiene viva e alimenta la inquietudine del cuore in cerca di risposta.

Privato della luce di Dio e reso incapace di intuire la sua relazione a Lui, all’uomo è rimasta solo la ragione per una faticosa ricerca della verità. Ed è la ragione che viene a caratterizzare l’uomo. Non per nulla esso è stato definito  “animale razionale”.  L’uomo differisce dagli animali, dicono i filosofi, proprio perché capace di ragionare.

Così, invece dell'intelletto cioè quella capacità di intuito che fa percepire il rapporto con  Dio, usiamo la ragione; cioè riflettiamo, compariamo  e tiriamo conclusioni logiche. Ma la ragione, a differenza dello spirito, non coglie la luce direttamente,  essa lavora in forma indiretta, per deduzioni. Può ricevere un'intuizione dallo spirito su cui lavorare (lampo di genio che apre una pista di riflessione non prevista!), può ricevere una percezione sensoriale su cui applicarsi, ma la ragione non tocca niente se non i concetti, e i concetti esprimono una verità che viene astratta dalla realtà, sono delle nozioni  indirette. La ragione non è immediatamente a contatto con la verità concreta: né con la verità materiale della creazione che noi raggiungiamo direttamente con i sensi, né con la verità spirituale che noi raggiungiamo direttamente con lo spirito. E’ importante cogliere questo per renderci conto come nel campo della fede le elucubrazioni scientifiche e le ricerche esegetiche più sofisticate non producano né, di per sé, promuovano la fede. Non di rado, anzi, la impediscano.
Il motivo sta nel fatto che, oscurato e debilitato, lo spirito rimane nelle regioni oscure e misteriose del nostro essere. Dice s. Paolo agli ateniesi: “il Signore ha stabilito che gli uomini lo cerchino a tastoni, nel buio per giungere a trovarlo” (At 17, 27). E questo succede anche  se, in realtà, noi, come ricorda  ancora s. Paolo, siamo in Dio, abitiamo in Dio, viviamo in Dio” (At 17, 28). Se non lo vediamo non è perché Dio non vuole farsi vedere, ma perché in noi non ci sono più funzionanti come dovrebbero essere, gli organi stabiliti perché si veda Dio. Abbiamo gli occhi del corpo e vediamo la luce visibile, ma gli occhi dello spirito, l’occhio del cuore dell’uomo è chiuso, è impedito.” Questo spiega perché, nonostante che dal fatto della creazione si possa facilmente risalire al creatore (Rm 1,20), molti non riescano a farlo e che, anzi, alcuni ne proclamino esplicitamente la non esistenza. L’oscurità dello spirito finisce col condizionare necessariamente anche la luce della ragione.



La fede come ascolto e incontro con Cristo.

 
Parlando della virtù della fede ci riferiamo ora a ciò che avviene nel cuore dell’uomo quando si apre a Dio che gli si dice e gli si dona, e risponde a sua volta fidandosi e affidandosi a Lui. Il Dio che ci si rivela e il Dio a cui rispondiamo è la Trinità santissima: Padre, Figlio, Spirito Santo. E’ il Padre che nel Figlio per mezzo dello Spirito si rivela e ci invita a stabilire un rapporto di comunione. Parlare di fede vuol dire, per noi, mettere in luce questo nostro rapporto con le persone divine. Essenziale è il ruolo dello Spirito dal momento che è Lui che realizza la nostra comunione con il Padre e con il Figlio.
Poiché, però, l’autore e perfezionatore della fede è Cristo Signore, perché è in Lui che Dio ci parla e ci si dona ed è a Lui che noi rispondiamo e ci doniamo, concentriamo ora tutto nostro discorso sul nostro rapporto con Lui.

Va subito sottolineato che “quando il cristiano dice: <credo>, lo dice a Qualcuno, non ad una proposizione astratta. <Credo> vuol dire: <mi fido di te, mi affido a te, Signore>. E quando dice: <Io credo in Dio> vuol dire che è su Dio che vuole fondare la sua vita. Questa è la fede cristiana” (Benedetto XVI). La fede, dunque, è vera e viva quando si accoglie la parola che Dio ci dice in Cristo e ci si affida a Lui, e quando porta a desiderare di incontrare e di conoscere sempre meglio Colui che ci si rivela, quando spinge a contemplarlo per adorarlo, ringraziarlo e lodarlo.

Dobbiamo, purtroppo, riconoscere che non è questa la fede che, in genere, mostrano di avere tanti “cristiani” per i quali essa rimane una idea vaga e astratta che influisce in nulla nella loro vita. Non è una operazione del “cuore”, ma solo una divagazione della mente che rimane nel campo delle astrazioni.
Nell’indire l’anno della fede Benedetto XVI ci ricorda che urge ricuperare e riproporre (tra i “credenti”) il vero volto della fede cristiana, che non è semplicemente un insieme di proposizioni da accogliere e ratificare con la mente. È invece una conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere. Del resto, una parola non è veramente accolta se non quando passa negli atti, se non quando viene messa in pratica, se la si lascia scivolare via è evidente che non viene accolta. La fede è una decisione che impegna tutta l'esistenza. È incontro, dialogo, comunione di amore e di vita del credente con Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cfr. Gv 14, 6).

L’esperienza di s. Paolo è paradigmatica. Si crede quando si incontra Gesù e lo si riconosce Signore e Salvatore. In effetti questo è il contenuto della predicazione apostolica. Il Kerigma è tutto centrato sulla passione, morte e risurrezione del Signore (cfr  Rm 4,25).

Il Signore Gesù è la chiave di volta, autore e perfezionatore della fede. Il riferimento a Lui è necessario anche per comprendere il cammino veterotestamentario, che è una storia fatta di segni parziali e provvisori della rivelazione di Dio e della sua accoglienza da parte dell'uomo. Tutti segni che rimandano al segno ultimo, nella pienezza del tempo, in rapporto a cui si definisce la fede cristiana. Senza Cristo tutto rimane incompleto; il volto velato di Mosè che gli Ebrei non potevano vedere, ne è il simbolo. Come dice s. Paolo: “Fino ad oggi, quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto” (2 Cor 3,14-16).

La vicenda terrena del Verbo costituisce l’intervento definitivo di Dio nella storia, compimento messianico delle promesse fatte ad Abramo (cf Gn 12,3;2,16-18) e dell’alleanza sancita tramite Mosè con il popolo ebraico (cfr Es 19,5-8; 24,1-8). E’ la sua storia personale che dà senso compiuto a tutta la storia della rivelazione, portandola a pienezza e definitivo compimento.    Suprema rivelazione di quello che Dio è in Sé, di quello che è per noi, di quello che noi siamo per Lui.

Il fatto che tutta la rivelazione tende a Cristo e che Cristo sia la stessa Verità detta e data noi, e quindi sintesi e attuazione perfettissima di qualunque partecipazione di verità, dimostra anche che il cammino degli uomini alla faticosa ricerca della verità costituisce un inconsapevole ricerca ed espressione di fede. Perché chi cerca la verità cerca Cristo il quale, appunto, è la Verità. Come, del resto, chi cerca la vita vera (quella che dura sempre) cerca Cristo che è la Vita; e chi cerca la via per arrivarci, cerca Cristo, perché Lui è la Via. “Io sono la Via, la Verità,  la Vita” (Gv 14,6).

In Cristo Gesù abbiamo la suprema rivelazione e comunicazione in questo mondo di Dio e delle sue perfezioni. Guardando e conoscendo Gesù si vede e si conosce Dio: “Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre… Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14, 9.11). Il volto del Padre  risplende in quello di suo Figlio Gesù: Egli è «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza » (Eb 1,3). E’ Lui l’immagine perfetta del Padre: “Il Cristo è immagine di Dio invisibile” (Col 1,15), colui nel quale «piacque a Dio di far abitare ogni pienezza» (Col 1,19), nella sua umanità Egli è  “il visibile di Dio invisibile” (1 Gv 1, 1-3).

Gesù Cristo porta a perfezione la fede biblica innanzitutto  rivelandoci il suo oggetto supremo, che è il mistero di Dio nel suo intimo vivere. Ci dice che Dio è Uno e Unico (come tutto il Vecchio Testamento ha sempre, costantemente, proclamato), ma questo Dio, aggiunge Gesù, non è solo. E’ una Famiglia, è  una Comunione di Persone (Trinità) che si vogliono talmente bene da essere Uno. Gesù ci dice, inoltre, fino a che punto questo Dio entra in relazione con la sua creatura facendosi uomo,  inserendosi pienamente e rendendosi parte della nostra stessa storia.

Ma Egli è, allo stesso tempo, suprema rivelazione dell’uomo, perché perfetta attuazione dell’essere umano sognato da Dio prima della creazione del mondo. Principio, culmine e ricapitolatore di tutto, Cristo è la verità e la consistenza di ogni essere, ogni uomo tende a Lui e in Lui trova la propria ragione e la propria pienezza (cfr Ef  1, 3-23; Col 1, 15-20; Gv 1, 3; ecc).  L’uomo non è vero, né reale, né compiuto che nella misura in cui Lo riflette nel proprio essere e nel proprio operare.

In sintesi: E’ Gesù che rivela il mistero di Dio Trinità, ed è Gesù che realizza il mistero di Dio incarnato. È in Gesù che Dio incontra perfettamente l’uomo, ed è in Gesù che l’uomo incontra perfettamente Dio. Gesù è il centro e il culmine di tutta la storia della salvezza, la rivelazione suprema di Dio e la perfetta realizzazione del suo inimmaginabile disegno che è quello di introdurre l’uomo nell’intimo della sua stessa vita, facendolo “figlio nel Figlio”.

Da tutto ciò appare chiaro che la fede cristiana si realizza “nel Signore Gesù” (Ef 1, 15). In Lui essa  ha la sua origine e contenuto centrale, perché è in Cristo Gesù che Dio si autorivela,  è in Lui che si fa verità per noi, è in Lui che si fa conoscere, è in Lui che si fa perfettamente incontrare. E’ Cristo che ci comunica la verità (origine della fede); è Cristo la verità che ci viene comunicata (oggetto della fede); è Cristo la ragione per cui crediamo (motivo della fede). Infine, è Cristo Colui a cui ci uniamo per credere; infatti la fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione del suo modo di vedere.

  Ne segue che la fede cristiana ha Gesù per oggetto primario. Fede è credere che in Gesù di Nazareth è all’opera Dio stesso. Non si tratta solo di credere che Dio agisce in Gesù, ma che Gesù è Dio che agisce, e che la causa di Gesù è, identicamente, la causa di Dio. La predicazione primitiva mostra chiaramente che la fede cristiana è essenzialmente risposta al kerygma riguardante Gesù: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm. 10, 9).
La fede come adesione a Dio che si rivela è, identicamente, adesione a Cristo, perché è in Lui che Dio ci si dice e ci si dà. “Il cristiano professa la fede in Dio nella fede in Gesù Cristo: unitariamente, indivisibilmente. E’ in lui che la verità della fede, verità di Dio, si offre all'uomo; perché in Gesù Cristo il volto dell'invisibile Dio si fa visibile, all'uomo. .. La verità di Dio è un tutt'uno con la persona e la storia di Gesù. E’ in Lui, nel Cristo, che Dio si è fatto per noi via, verità e vita (Gv 14,6).

Ne segue che, dopo l’incarnazione del Verbo, la fede come risposta dell’uomo alla autorivelazione di Dio,  non è un atteggiamento di adesione generale e di fedeltà a tutto ciò che Dio ha detto, fatto e richiesto lungo la storia del suo popolo, ma adesione ad un evento ben preciso che è la presenza di Cristo nel mondo, la sua vita, la sua  morte,  la sua risurrezione. E’ questa, come abbiamo già ricordato, la formula iniziale della fede, il kerigma:  Gesù Cristo che è il Figlio di Dio venuto nel mondo, è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione (Rm 4,25).
  Il cristiano con la fede vede, innanzitutto, Gesù Cristo morto e risorto per lui che, nella Chiesa, gli dona il suo Spirito e la sua salvezza. Giustamente  papa Benedetto scrive: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione definitiva” (DCE 1). Questo è un dato fondamentale che va tenuto costantemente presente. Non bisogna mettere le cose che crediamo al posto di colui in cui crediamo.
 “La verità che la fede ci dischiude è una verità centrata sull’incontro con Cristo, sulla contemplazione della sua vita, sulla percezione della sua presenza. In questo senso s. Tommaso d’Aquino parla dell’oculata fides degli apostoli –fede che vede!- davanti alla visione corporea del Risorto” (LF 30b). “Come atteggiamento fondamentale dello spirito, -non è una cosa solo intellettuale o sentimentale-, la fede vera coinvolge l'intera persona: pensieri, affetti, intenzioni, relazioni, corporeità, attività, lavoro quotidiano...  nella fede viene messo in gioco quanto abbiamo di più nostro e di più intimo, il nostro cuore, la nostra intelligenza, la nostra libertà, in un rapporto profondamente personale con il Signore che opera dentro di noi” (Benedetto XVI, Catechesi 31\5\2006).

Il cristiano deve essere consapevole che nel campo della fede si gioca tutto nell’incontro con la persona di Gesù. Senza questo incontro si potrà aderire ad una idea o a un progetto, mai a una persona. Ma una verità che non penetra nel profondo, che non tocca la persona nell’intimo, non riempie niente, lascia il cuore vuoto e non muove a nulla  Tanti cristiani ripetono stancamente delle frasi e degli insegnamenti, dietro i quali però si manifesta il vuoto; perché aldilà della facciata non c’è mai stata un’autentica esperienza di Gesù. “La fede nel Signore non è un fatto che interessa solamente la nostra intelligenza, l’area del sapere intellettuale, ma è un incontro che cambia radicalmente la vita perché la coinvolge tutta: sentimento, cuore, intelligenza, volontà, corporeità, emozioni, relazioni umane. D’ora in poi, al centro, ragione e scopo di tutto questo c’è una persona: Cristo Signore. Il nucleo centrale di questo incontro-adesione personale  a Gesù Cristo, sta nella vita di preghiera, nella vita sacramentale, nella meditazione della parola.

La fede è, dunque, soprattutto un rapporto vitale. Ritorniamo al tema del cuore che esprime tutta l’interiorità della persona. Questo va ben sottolineato perché non di rado dalla relazione personale con Cristo sentito e accolto come via-verità-vita (Gv 14,6) si è passati ad un modo razionale e impersonale di concepire la verità e la vita. La affermazione dottrinale diventa contenuto o oggetto della fede, e la adesione a tale affermazione diventa l’atto di fede del soggetto, cioè l’essere stesso del credere. Cristo viene sostituito con una affermazione dottrinale che, per essere impersonale, ha ben poca incidenza sulla vita. Tanti cristiani credono tutto, ma Cristo, per loro, rimane un  estraneo, un personaggio del passato. Per credere non hanno bisogno di ricorrere e pensare a Lui, perché tutto è ormai ben riassunto in formule precise, da approfondire magari con l’aiuto di qualche teologo. Hanno fede? Non basta sapere cosa è la salute per averla! Saggiamente ha scritto s. Gregorio Nisseno: “Nella vita dell’uomo la salute del corpo rappresenta un bene, ma la felicità non consiste nel conoscere la ragione della salute, bensì nel vivere in salute”. Non basta sapere che Cristo è la nostra salvezza, bisogna accoglierlo per averla! La fede vera è aderire  dal profondo di sé e con tutto se stesso a Lui, non ad una idea di Lui!

E’ un punto, questo, su cui è necessario insistere. Le affermazioni astratte non interpellano e non dialogano con nessuno (soprattutto se misteriose!), per cui una fede del genere non incide sulla vita. Ciò che attira e conquista è la persona viva, non un principio astratto. La nostra stessa esperienza personale lo conferma: quando riusciamo a stabilire un certo rapporto con la persona di Gesù, ci si sente interiormente pacificati, si assolvono i propri compiti con generosa sollecitudine e si affrontano serenamente le difficoltà perché si guarda la realtà con cuore aperto e benevolo. E’ con il cuore che si comunica al cuore, non con le belle dichiarazioni e, in fondo, nemmeno con l’efficienza delle nostre prestazioni e delle nostre umane realizzazioni. E’ nel cuore che Gesù ci vuol toccare, ed è il nostro cuore che Egli vuole conquistare. Per questo S. Paolo afferma “Con il cuore si crede” (Rm 10,10). E Papa Francesco ribadisce: “Toccare con il cuore, questo è credere” (LF 31). E’ con il cuore (al contrario di Pietro e Giovanni che, dopo aver costatato il sepolcro vuoto, hanno ragionevolmente concluso che non c’era altro da cercare!) che Maria Maddalena ha continuato a cercare Gesù di fronte al sepolcro vuoto, ed è quando Gesù l’ha toccata nel cuore chiamandola per nome che ella lo ha trovato (Gv 20,11-17).

E’ bene aggiungere che avere fede non vuol dire, di per sé, nemmeno  aderire ad un gruppo, fosse anche un gruppo impegnato nella attività parrocchiale e in meritevoli attività sociali e “apostoliche,” o ad una comunità religiosa, ma andare da Gesù e imparare ad amarlo. La fede rende il credente amico di Gesù, cioè di uno che condivide con me la vita, che cammina con me nelle strade del mondo, che lavora, soffre, combatte e gioisce con me. Che mi porge la mano quando cado. Credo che Gesù mi è amico, che mi tratta come tale e mi chiede di rispondergli. La risposta a questa richiesta è la fede nella sua essenza e nella sua perfezione. Come ogni vera relazione di amicizia la fede non è un dovere ma un bisogno di gratitudine, desiderio di intimità più che moltiplicazione di iniziative.

In conclusione, credere  significa, sì, accettare la verità su Gesù e ciò che Lui ci rivela, ma significa soprattutto “conoscere Gesù”. E noi sappiamo cosa significa “conoscere” nel linguaggio biblico, quando si tratta di persone: stabilire una profonda comunione personale. Paolo prega perché “ il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 17-19).

Adesione personale a Cristo , la fede, ovviamente, è anche accettazione degli eventi della sua storia, delle sue parole, dei suoi gesti, delle diverse modalità con cui ha operato la nostra salvezza. Anche tutto questo costituisce oggetto e patrimonio di fede. Credere, pertanto, significa anche aderire con ferma certezza alla verità di questi eventi. Nella fede c’è anche una dimensione intellettuale che è fondamentale e ineliminabile. Come si può accettare Gesù, se non si accetta come vero ciò che Lui è stato, ha fatto e ha detto?
Ne segue che nella fede  c’è un aspetto intellettuale e uno affettivo.  Secondo la dimensione intellettuale essa è accettazione del vangelo, predicato dagli Apostoli come dottrina che viene da Dio e da Lui comprovata (1 Ts 1,5.8). La verità centrale è Cristo morto e risorto. Ed è questo il nucleo della predicazione primitiva o kerigma (Rm 10, 9).
Secondo la dimensione affettiva, cioè in quanto adesione personale, la fede è accoglienza di Cristo, dono che il cristiano fa di sé a Lui; in forza di tale atto entra nel suo mistero e lo partecipa. Per cui il credente è uno che è “in Cristo”, che vive “di  Cristo”.

Nel suo insieme, dunque, la fede cristiana comporta sia l’adesione personale al Signore Gesù, sia l’assenso alla verità che Egli ci rivela. “Credere” ha perciò un duplice riferimento: alla persona e alla verità; ma anche l’adesione alla verità è sempre legata alla fiducia che si accorda alla persona di Gesù che la rivela. In effetti, io accetto tutto qullo che Lui mi dice non perché lo capisco, ma perché me lo dice Lui.
Nella fede anche l’adesione alla verità non è decisa dalla riflessione della ragione, ma dalla intuizione (intelletto) e dalla decisione (volontà)  del cuore.


Dono e impegno

Poiché è Dio che nella sua infinita condiscendenza viene incontro all’uomo, gli si rivela per invitarlo ed ammetterlo alla comunione con Sé, appare evidente che la fede è un dono che viene da Lui. E’ Lui che si autocomunica, è Lui che sollecita l’uomo, è Lui che lo rende capace di rispondere.
Il fatto che la fede sia un dono totalmente gratuito però non esclude, bensì sollecita e coinvolge pienamente  la persona che lo riceve. Nel medesimo tempo in cui Dio manifesta se stesso all'uomo, comunicandogli la sua luce e il suo amore, questi è chiamato a rispondere, aprendo la sua mente e il suo cuore. La fede è un incontro fra Dio e l'uomo, dove l'iniziativa è divina ma la risposta è umana.  E’ vero certamente che la risposta dell’uomo ha sempre  bisogno dell'aiuto della grazia, però chi risponde è l’uomo, e se questi rifiuta la risposta il dono della fede non si realizza. La fede comporta una relazione tra Dio  che offre e si offre e l’uomo che accetta. Bisogna, dunque, aprirsi perché questo dono possa essere prodotto, cioè possa esistere. Questo “aprirsi” all’accoglienza costituisce parte integrante della fede. Se manca questa apertura la fede non si dà. In effetti, sono io che credo. E’ vero che noi non possiamo nulla senza la grazia di Dio, ma è altrettanto vero che Dio per aiutarci ha bisogno della nostra libera collaborazione. Questo, per Lui, è importante, anzi, determinante . Come ogni dono la fede è proposta al consenso e alla libera adesione della volontà. Sono io che decido di credere, che voglio credere. E’ questa apertura libera che permette alla luce della fede di entrare nell’intimo ed illuminare la persona di una luce nuova. Quando è autentica essa orienta a Dio  l’uomo intero, con il nucleo della sua persona e con tutte le capacità e le forze.  Benché, dunque, l’uomo può fare questo perché attratto da Dio, è chiaro anche che è l’uomo stesso che deve accettare di essere attratto e conquistato. E’ il mistero della libertà dell’uomo che può dire “no” perfino a Dio.
Se la risposta dell’uomo è positiva si realizza un vero, profondo incontro personale tra Dio che si rivela e l’uomo che crede. Dio si rivela per comunicare con l’uomo, l’uomo crede per comunicare con Dio. E’ in questa reciproca comunicazione che si realizza e progressivamente si sviluppa la meravigliosa avventura della fede. Si inizia un dialogo destinato a sfociare nel faccia a faccia della visone beatifica.

Se da parte di Dio la fede è un dono, da parte di chi lo riceve è un compito che impegna. La risposta della fede, come detto, abbraccia tutto l’uomo e tutta la vita. Non si può dire di credere davvero se non ci si converte a Dio e non si orienta a Lui la propria  esistenza. Ne segue che l’esigenza della conversione è insita nella fede stessa. Essa, inoltre, dice fiducioso abbandono nelle  mani di Dio, è fidarsi di Lui e lasciarsi da Lui guidare. In questo la fede si dimostra già come una modalità dell’amore.

La fede, dunque, pur essendo dono gratuito di Dio, non solo non prescinde, ma esige la collaborazione umana. E questo non solo  nella costituzione ed esercizio della fede (cioè come abito e come atto), ma anche nella preparazione ad essa.
Questo vuol dire che per entrare nel mondo della fede, per scoprire il Mistero e incontrare Dio nella quotidianità, è necessario mettersi in condizione di farlo, ricercando sinceramente la verità e il bene e conservando, dunque, una coscienza “pura”. “La coscienza è il luogo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (GS 16). Chi risponde alla voce della coscienza sta, di fatto, parlando con Dio, e, se segue la via del bene, presto lo riconoscerà.
Questa voce: “fai il bene, evita il male” che risuona nell’intimo, è già voce di Dio e dono di Dio, voce e dono che Egli  non fa mancare a nessuno. Chi ascolta questa voce si mette in condizione di ricevere ancora e di aprirsi agli orizzonti della vita soprannaturale in cui la fede introduce.
Tante persone attendono e operano per la giustizia e  la pace, aspirano e cercano la pienezza dell’esistenza. E questo è già un modo di attendere e tendere verso il Signore in cui tutto ciò trova il suo pieno compimento. “In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande” (Mt 8, 10). Come aveva ottenuto il dono della fede il centurione di Cafarnao? Iddio ha le sue vie.

Dono gratuito offerto a tutti

Ciò detto, rimane, però, una domanda di fondo: questo dono (non dovuto a nessuno perché del tutto gratuito) viene offerto a tutti? Se è vero che Dio vuole la salvezza di tutti (1Tim 2,4), bisogna rispondere di sì: Dio offre a tutti il dono della fede, anche a quelli che non conoscono esplicitamente il Vangelo, né la grazia della salvezza che ci è stata donata in Gesù Cristo. Come? Abbiamo appena ricordato che Dio fa udire la sua voce nella coscienza di ogni uomo. Se uno ascolta questa voce sta sulla strada che lo porta alla conoscenza esplicita del Signore.
Sappiamo che accanto a una evangelizzazione esteriore, che avviene per mezzo della Chiesa, esiste anche una evangelizzazione interiore operata direttamente dallo Spirito Santo, che riguarda ogni cuore. Il Concilio ci ricorda: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo qual modo ad ogni uomo… Cristo è morto per tutti…la grazia divina lavora invisibilmente nel cuore di tutti gli uomini di buona volontà… perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di essere uniti, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale” (GS 22). “Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramene Dio, e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salute eterna” (LG 16).

Lo Spirito Santo è il grande evangelizzatore che opera mediante la Chiesa visibile ma, nel medesimo tempo, riempie di sé la terra intera raggiungendo le anime attraverso le vie a noi sconosciute dell'interiorità.  Per questo, non c'è uomo che, in modo misterioso ma reale, non abbia la possibilità di approdare a una fede almeno implicita. Se nella coscienza risuona la voce di Dio, ne segue che ogni uomo, anche se non ne è del tutto consapevole, ha a che fare con Dio che lo chiama e con tutte quelle luci e ispirazioni che la divina misericordia sparge a piene mani su tutti i suoi figli. Se una persona non arriverà alla fede, non è certo per mancanza del dono di grazia.

Il fatto che la risposta alla rivelazione dipenda dalla libertà dell’uomo non significa, naturalmente, che questi possa accettarla o rifiutarla senza conseguenze. Dio fa le cose sul serio; e se parla all’uomo lo fa per farsi sentire ed ascoltare. La sua, in fondo, è una proposta di amore. E l’amore offerto esige risposta; non rispondere è già rispondere, negativamente, e questa risposta coinvolge pienamente la  libera volontà e la conseguente responsabilità. “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede” ha ricordato il Concilio (DV 5) citando S. Paolo (Rm 16,26). Nessuno può essere costretto a credere, ma ognuno è responsabile della sua risposta e ne porta, pertanto, le conseguenze. Chi dice “sì” entra nel Regno, chi dice “no” ne resta fuori. A seconda che crede o non crede l’uomo stesso decide della propria salvezza o della propria perdizione (Gv 3,18). “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16). “Se non credete che io sono morrete nei vostri peccati” (Gv 8, 24). “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3, 18). E’ attraverso la decisione di fede che l'uomo perviene alla salvezza.  E’ essa che apre la porta del Regno. Qui possiamo capire come sia errato e fuorviante  dire che “Dio condanna”. Non è Dio, ma l’uomo che “si condanna” rifiutando di accogliere e partecipare la salvezza che Egli ci offre venendo a noi.

Accogliere e fare spazio a questo dono di vita è, ovviamente, anche impegno ad agire e lavorare perché possa crescere e maturare;  ma è necessario non dimenticare mai che, quale che sia la tappa del suo sviluppo, l’uomo vi si trova e vive più per quello che riceve che per quello che fa.



Oscurità  e luce della fede

  Nella incessante ricerca della nostra intelligenza fatta per la verità, bisogna costantemente tenere presente che “credere vuol dire prima di tutto accettare come verità ciò che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l'orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza”. Però il consenso a ciò che non si capisce appare anche come una certa limitazione della ragione che, invece, vuole capire. Per questo tale consenso non si concede facilmente. Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione dove entra in azione la volontà (cioè il cuore): quella di affidarsi ad una persona -non ad una persona ordinaria -, ma a Cristo. “Credo quello che mi dici perché mi fido di te, Signore!”. È importante ciò che crediamo, ma ancor più importante è Colui a cui e in cui crediamo . In questo senso la fede è ascolto e accoglienza di Qualcuno che non vediamo. “Un faccia a faccia nella oscurità”, come direbbe la B. Elisabetta della Trinità.
“Nella fede accogliamo il dono che Dio fa di se stesso rivelandosi a noi, creature fatte a sua immagine; accogliamo e accettiamo quella Verità che la nostra mente non può comprendere fino in fondo e non può possedere, ma che proprio per questo dilata l'orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al Mistero in cui siamo immersi e di ritrovare in Dio il senso definitivo della nostra esistenza.
“L'esistenza umana è un cammino di fede e, come tale, procede più nella penombra che in piena luce, non senza momenti di oscurità e anche di buio fitto. Finché siamo quaggiù, il nostro rapporto con Dio avviene più nell'ascolto che nella visione; e la stessa contemplazione si attua, per così dire, ad occhi chiusi, grazie alla luce interiore accesa in noi dalla Parola di Dio (Cfr Benedetto XVI, Discorso, 5\VI\2006)

La fede, pur essendo oscura, è, tuttavia, una luce che illumina la via. Essa “determina un salto di qualità nella vita di una persona. Prima della fede la visione del mondo è rinchiusa nella dimensione terrena e temporale, oltre la quale la nostra ragione (quando non è schiava della superbia e dell’egoismo!) riesce appena  a cogliere l'esistenza di un Essere supremo e la possibilità di una vita ultraterrena. Senza fede si rimane nella oscurità e nella ignoranza delle cose più importanti, quali il destino dell’uomo e il significato stesso della vita. Si è come ciechi e randagi nel mondo, avvolti in una foschia in cui tutto è confuso, e qualunque via si intraprenda non sembra avere altro sbocco che la morte. Con la fede, invece, si scopre un immenso e straordinario orizzonte, e ci si apre ad una vita che non tramonta. Una vita che, già fin d’ora, risulta piena e ricca di bene, perché non c’è niente di più beatificante e rassicurante che l’essere e il sapersi amati di amore eterno. Con la fede si aprono gli occhi e ci si rende conto che la vita, fino ad allora condotta, era contrassegnata dalla cecità e dall'ignoranza. Ci si illudeva di vedere e di capire, in realtà si era irretiti dal mondo delle illusioni e delle cose transeunti.

La fede, allora, è tutt’altro che un salto nel buio. Al contrario è un tuffo in un oceano di luce perché è la luce stessa di Dio che inonda l'intelletto umano, rendendolo capace di vedere nella verità la realtà che lui è e che lo circonda, e aprendolo allo stesso tempo a realtà che superano infinitamente la sua capacità di vedere. “Alla luce della fede il mondo, la storia e la vita umana manifestano tutta la loro bellezza e grandezza. Gli interrogativi insolubili ricevono una risposta. La verità divina rischiara con la sua luce l'opera mirabile della creazione e della redenzione, e il cuore del credente si ricolma di stupore, di gratitudine e di adorazione. Il racconto del cieco nato (Gv, 9,1-41) costituisce un’eccellente metafora di questa trasformazione. Prima della fede l'uomo è cieco. Dopo la fede è come colui che riacquista la vista.” (P. Livio, Le virtù teologali. S. Paolo 2003, p 39).

La fede fa entrare negli orizzonti di Dio, aprendo panorami e prospettive che danno una interpretazione e una dimensione molto diversa alla vita, e immensamente superiore, proprio perché, mettendoci in contatto con Dio e facendocelo “conoscere”, ci fa vedere tutte le cose nella sua luce. “Conoscendo Dio, io conosco che Dio è creatore, ed ecco che le cose assumono un significato come creazione di Dio. Conoscendo Dio, conosco che Dio è salvatore, ed ecco che tutte le vicende acquistano significato in questo piano della salvezza di Dio. Conoscendo Dio, conosco che Dio è felicità eterna e beatitudine infinita ed ecco che la vita assume significato e valore nei confronti di questa beatitudine e di questa felicità.” (A. Ballestrero, Credo nello Spirito Santo. Piemme, 1998 p. 52). Conoscendo Dio conosco che Dio è amore e tutto io vedo come espressione di amore paterno che provvede e veglia sui suoi figli.

Nonostante tutto questo, però, la fede rimane oscura perché non deriva da alcuna verità manifesta e non dà alcuna evidenza della verità a cui si assente; non solo ma nella fede non si ha nemmeno l’evidenza del fatto della rivelazione. Si crede perché si vuole credere, non perché si vede.
La oscurità, inoltre, non riguarda solo le verità su Dio, ma anche i suoi disegni e le modalità di attuazione. Spesso il cammino in cui introduce  è avvolto da tenebre apparentemente impenetrabili. L’esperienza di Abramo ne è una prova. Nel Nuovo Testamento abbiamo l’esperienza sublime di Maria. Quale prova maggiore alla sua, davanti alla croce e alla tomba del Figlio? Eppure anche in quei momenti di buio assoluto la promessa di Gesù rischiarava la sua anima di perfetta credente.

Noi parliamo di <fede cieca>, per dire che essa va al di là di qualsiasi evidenza razionale. Ma questo non significa affatto che non conosca la strada e non sappia dove va. Essa  è <cieca> nel senso che non si regola con il lume della ragione, eppure essa è una guida sicura per tutti quelli che l’hanno. Il poeta romanesco  Carlo Alberto Salustri (Trilussa)  lo ha magnificamente espresso in uno dei suoi sonetti più belli, dal titolo significativo: La guida.
Quela vecchieta cieca che incontrai/ la notte che me spersi in mezzo ar bosco,/ me disse: <Se la strada nu’ la sai,/ te ciaccompagno io, che la conosco.// Se ciai la forza de venimme appresso,/ de tanto in tanto te darò ‘na voce/ fino là in fonno, dove c’è un cipresso, /fino là in cima, dove c’è la croce…>. // Io risposi: <Sarà…ma trovo strano/ che me possa guidà chi non ce vede…>/ La Cieca, allora, me pijò la mano/ e sospirò: <Cammina!>.// Era la Fede.

Il paradosso sta nel fatto che, pur nella oscurità, la fede è una lampada che non cessa mai di splendere. Diventando, realmente, il faro della vita. E’ un fatto: il credente sa guidare se stesso e gli altri sul retto cammino. La Chiesa è giustamente chiamata «luce delle genti» per la fiaccola della fede che in essa rimane sempre accesa. Mediante la fede l'occhio dell'anima contempla le verità divine che il Padre pronuncia mediante il suo Verbo fatto carne e che diventano per noi via e vita in forza della   grazia dello Spirito Santo.
La fede è una oscurità che “illumina” perché in essa siamo toccati dall’amore di Dio. E questo si verifica nell’intimo di noi stessi, cioè nel cuore che, come dicevamo, costituisce  il luogo dove si incentrano tutte le dimensioni della persona, “il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. E’ in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso (come dimostra l’esperienza originaria di ogni uomo) porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà” (LF 26).  Per questo s. Paolo afferma: “con il cuore si crede” (Rm 10,10). Ma è la fede, appunto, che ci apre a questo  amore e ce lo fa accogliere. Un amore che è una persona: Cristo Signore. Una  persona si accoglie davvero quando le si apre e le si fa spazio nel proprio cuore. Per questo s. Agostino può stupendamente affermare: “Toccare con il cuore, questo è credere” (cfr LF 31).

Itinerario della fede

La fede, seminata nel nostro cuore con la grazia del Battesimo, va coltivata. Essa, dicevamo, richiede innanzitutto l’ascolto del Signore. E questo vuol dire essere rivolti a Lui, guardarlo in volto, pendere dalle sue labbra. Un ascolto che vuol  dire disponibilità e cuore aperto per accogliere e lasciarsi illuminare dalla sua parola, in modo da vedere tutto alla sua luce, e lasciarsi da essa condurre. In concreto, questo significa porre la fede a fondamento e norma della valutazione della realtà, delle decisioni da prendere, e come guida nei comportamenti e nelle operazioni da compiere. Chi si considera credente, magari perché va in Chiesa la domenica, e poi fa le sue scelte a partire dai propri criteri, dalle proprie preferenze e agisce solo in vista dei propri interessi, si comporta da miscredente, e lo è di fatto.

Vivere di fede è fidarsi di Dio, è mettersi nelle sue mani. E questo in un modo sempre più continuo e consapevole, fino al punto in cui questo abbandonarsi a Lui diventi l’atteggiamento abituale della vita. E’ Lui il mio costante punto di riferimento, il mio appoggio, il mio sostegno, “mia rupe e mia fortezza”. Lasciarsi condurre e camminare con Lui: questa è vita di fede.

La norma suprema di questo camminare davanti a Dio, lo sappiamo, è la sua santa volontà (Mt 6,10). Questa volontà è incarnata in Cristo che è il “sì” perfetto detto a Dio; per cui potremmo dire che l’obbedienza non è una qualità del Signore Gesù, ma la sua stessa definizione. E’, dunque, partecipando la sua obbedienza che noi entriamo nel disegno del Padre e facciamo nostra la sua volontà che tutta si riassume nel volerci “figli nel Figlio”, cioè perfettamente conformati e trasformati in Lui.

La vita cristiana comincia da un atto di obbedienza, l'obbedienza della fede (Rm 1,5; 16,26) ed il suo sviluppo non è altro che sottomissione sempre più totale a Dio, a Cristo, al Vangelo (cfr 2 Tess 1,8; Rm 8,7). Lo abbiamo ricordato, il credente non ha che una norma di pensiero e di azione: Cristo (cfr  2 Cor 10,3-5). Suo impegno è compendiare la propria vita spirituale nell'unione a Lui, "via, verità e vita" (Gv. 14,6).

Tutto ciò è esigenza della fede, però non è ancora un dato di fatto; è un “programma” da attuare. Gesù chiama a seguirlo a partire dalla condizione in cui uno si trova che, in genere, è quella di persone che ragionano secondo l’uomo, guardando il mondo e la vita in vista del proprio successo e della propria realizzazione. L’uomo incentrato su di sé, nella ricerca continua di una forma di esistenza che corrisponda alle proprie aspettative modellate sui propri criteri e le proprie preferenze. Al centro dell’uomo naturale c’è sempre il proprio io e le cose che gli appartengono e costituiscono il suo mondo. Tutto è orientato a prendere e costruire se stesso. Anche quando, per ipotesi molto rara, uno si sforza di rimanere all’interno della legalità osservando tutte le norme della legge. Il caso del giovane ricco costituisce un esempio paradigmatico (Mt 19, 16-22).

  Ma proprio perché ci coglie in uno stato di debolezza e di povertà, la chiamata alla fede, oltre che gratuita, è  anche e, soprattutto, efficace. Quando Gesù li chiama gli Apostoli hanno una mentalità naturale, ragionano secondo l’uomo, i loro progetti e le loro aspettative sono ben lontani da quelli di Cristo. Tra loro e il Maestro c’è una distanza enorme, talvolta una vera e propria opposizione di aspettative e di progetti. Essi “non capiscono” e non “possono capire”, proprio perché l’uomo naturale non può capire il modo di pensare di Dio. Con molta difficoltà e mai del tutto Gesù è riuscito a far entrare nella mente degli Apostoli il disegno di Dio. Si trattava di un mondo che rimaneva loro estraneo e in cui sono riusciti ad entrare solo dopo la risurrezione e la discesa dello Spirito Santo.

Nonostante la distanza delle loro aspettative e la incomprensione di ciò che Gesù diceva gli Apostoli non hanno abbandonato il Signore. Cosa è che ha permesso loro di non andarsene e di continuare a seguirlo? L’attaccamento alla sua persona e la fiducia in Lui. Con la mente non riuscivano a seguirlo, ma con il cuore, sì. Questo attaccamento del cuore è il cuore della fede. Fidarsi di lui e affidarsi a Lui nonostante tutto. Aspettarsi solo da lui la realizzazione delle proprie aspirazioni, anche quando lui sembrava chiaramente contraddirle. Gli Apostoli speravano, magari, di far cambiare idea a Gesù; ad ogni modo è a Lui che si affidavano, e soltanto a Lui. “Abbiamo lasciato tutto, per seguirti!” (Mt 19, 27).
Insegnamento fondamentale per noi; nonostante la difficoltà del cammino, nonostante le resistenze al cambiamento di mentalità, nonostante la incapacità di capire, il segreto del successo sta nel continuare a stare con Lui. A camminare dietro a Lui, senza abbandonarlo e senza fermarsi. Gesù va sempre avanti e chi crede è colui che gli va dietro, ricordandosi sempre che non è lui che segue noi, ma noi seguiamo Lui. Chi vuol seguire Gesù gli deve andare indietro, non c’è scampo.

Seguire Gesù ben sapendo che non lo raggiungeremo mai pienamente; alla sua scuola non si finisce mai di imparare e alla sua sequela non si finirà mai di progredire. La fede del discepolo è questa fedeltà nel seguire. E questo vuol dire fiducia assoluta in Lui. Vuol dire cercare in Lui e solo in Lui la salvezza. Dare a Lui e solo a Lui la propria vita. Ecco la fede del discepolo. Fermarsi è interrompere la sequela, è come dire che non abbiamo più bisogno di Lui. E questo, in sostanza, ricostituirsi centro della propria vita.
Va evidenziato che, pur avendo un’idea di salvezza e di pienezza di vita diversa da quella di Gesù,  è a lui che i discepoli si affidavano per poterla realizzare. Si può, dunque, avere vera fede senza che ancora sia realizzata la piena trasformazione dell’uomo naturale e si sia verificata la conformazione a Lui. Non è la santità o perfezione che dà la fede, ma è la fede (cioè la fiducia in Gesù e l’attaccamento a Lui) che fa progressivamente percorrere il cammino di santità e permette di raggiungerla. La fede può sempre riportarci a Dio anche quando il nostro peccato ci fa del male.

Ma una fede forte deve attraversare delle prove, tanto più profonde quanto più si procede nel cammino, come ben dimostra S. Giovanni della croce con la sua dottrina della Notte Oscura.
Il cammino della fede comporta una purificazione continua e progressiva delle pretese del nostro “io” che vorrebbe sempre imporre il proprio punto di vista; vorrebbe evidenze e certezze: vorrebbe un Dio a propria disposizione. Una purificazione che è operata spesso proprio dalla esperienza della nostra povertà e delle nostre debolezze; una esperienza che ci aiuta efficacemente a far scomparire le nostre illusioni. Ci credevamo buoni, convinti di amare Dio e i fratelli, sicuri di noi stessi. E basta che le cose comincino a non andare più a modo nostro che sparisce tutto il nostro sapere, la nostra sicurezza, la nostra generosità. Credevamo di avere messo al centro Dio e subito dopo ci accorgiamo che si è saldamente reinsediato l’io. Credevamo di valere tanto e ci si trova costretti a riconoscere di non valere niente. L’atteggiamento di umiltà che ne può derivare costituisce un passo in avanti del cammino di fede.

Ma “è difficile continuare a credere e ricominciare a sperare dopo l’ennesima delusione; sperare che il giorno seguente sia migliore, dopo che tante volte esso è stato peggiore. E’ difficile continuare a credere che Dio è provvidenza amorevole quando tutto va storto. Continuare a farlo è qualcosa di straordinario che rivela l’onnipotenza della grazia divina, e dimostra che la fede è veramente un grande dono di Dio, che noi non potremmo mai acquistare con i nostri sforzi. Questo dono mi fa dire con piena convinzione «So a chi ho creduto» (2Tim 1,12), e mi dà la consapevolezza di stare nella verità.
  “Nella fede infatti noi sappiamo non solo che abbiamo prestato fiducia a colui che, essendo la stessa Verità, non può né ingannarsi né ingannare, ma anche a colui che è fedele e che non viene mai meno alle sue promesse. Se Dio è Padre, si comporta come Padre, anche se stiamo sperimentando il suo sconcertante silenzio. Non fu così anche per Gesù nel momento passione? La richiesta di una fiducia totale rientra nella pedagogia divina, che in questo modo vuole portare la fede alla sua perfezione. Abramo e la Vergine Maria sono gli esempi di questa fede che avanza nel buio assoluto, nella certezza che Dio non abbandona mai coloro che confidano in lui. I rovesci della vita, le sofferenze, le malattie e la stessa morte sono i momenti di verità in cui Dio prova la fede come l'oro nel fuoco.” ( P. Livio, lc, p. 47).

Man mano che la fede entra in profondità fa il vuoto di tutte le nostre pretese e delle nostre sicurezze. Ci si trova come in un mondo capovolto. “Le mie vie non sono le vostre vie”. Si arriva al punto di non “capirci più niente”. Scompare quel Dio che come una mamma è chino sul suo bambino; sparisce il Dio fedele che mantiene sempre la sua parola; sparisce il Dio giusto che premia i buoni e sanziona i cattivi. Sembra che le affermazioni, prima così chiare ed ovvie:  “amore” di Dio, “fedeltà” di Dio, “giustizia” di Dio, non siano più vere, non abbiano più senso. Non riusciamo più a capire come si possa dire che Dio è amore, fedeltà, giustizia, di fronte a certe situazioni dove il male, la crudeltà, l’ingiustizia la fanno da padroni, dove tutto crolla, il buio si fa impenetrabile e la vita perde significato. E’, questo, il tempo in cui Dio è più impegnato ad operare in noi la purificazione. Bisogna lasciarsi svuotare e, come Abramo, continuare a sperare contro ogni speranza. Bisogna riconoscere di non capire e accettare di non capire, nella certezza che Dio capisce  e che è Lui a condurre la storia del mondo e mia. Lui che da sempre ci ha eletti, scelti e predestinati ad essere suoi figli per partecipare la sua vita ed entrare nella piena comunione di amore con Lui (cfr Ef 1, 3-6).

Da quanto fin qui detto appare chiaro che nel vivere di fede ci sono dei gradi.
C'è un modo di vivere di fede che addirittura è un modo da dormienti: è quando la fede non influenza la vita, quando la conoscenza del Signore non diventa ispirazione di niente. Questa fede,   solo nozionale e puramente anagrafica, non è vera fede, S. Giacomo direbbe che è “morta”.
  C'è, poi, un credere che influenza la vita a tratti, a momenti. Una fede che talvolta emerge, ispira qualche giudizio, determiuna qualche scelta e qualche comportamento, ma, proprio perché saltuaria, non riesce a trasformare la vita.
C'è, infine, un credere così dominante da dare a tutta la vita in continuità e coerenza, ispirazione, luce e fecondità. E’ questa la vera fede, e a questa dobbiamo tendere.
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Siamo in cammino, abbiamo una fede che può e deve crescere. Il dinamismo di questa crescita è la grazia dello Spirito. In lui crediamo, in lui dobbiamo avere fede. E’ per questo che lo Spirito Santo è chiamato luce e forza, è chiamato Spirito di Verità e di Amore.
Perché la nostra fede divenga la luce sopra ogni altra luce, la verità sopra ogni altra verità, la certezza sopra ogni altra certezza,  abbiamo bisogno di lasciare la nostra logica per fidarci di Lui, lasciarci da Lui guidare, abbandonarci a Lui . La vera fede è un affidarsi totalmente a Dio, è accettazione di un progetto calcolato sulle possibilità di Dio, non sulle nostre. La vera fede non misura le possibilità a partire da noi, ma a partire dall’amore di Dio verso di noi. E questo amore è senza limiti.

Ma per abbandonarsi ciecamente ad un altro è necessario credere nel suo amore. Ed ecco, allora, che contenuto fondamentale della fede è credere in Qualcuno che ci ama, e che la nostra prima risposta all’amore di Dio  è CREDERCI.

Si dice che la nota qualificante del discepolo di Gesù è l’amore; ma è necessario tenere presente che fede e amore insieme stanno o cadono. Perché la fede, in quanto adesione ad una persona è già amore. Ed è la fede  che sorregge l’amore redendolo possibile. Prima che amore per Dio (e per gli altri), la vita cristiana è fiducia e accoglienza dell’amore che Dio ci offre nel dono del Figlio.  Solo se accolto, questo amore ci rende, poi, capaci di amare e amanti.


CONCLUSIONE

Vivit Deus in cuius conspectu sto (1 Re 17,1)

C’è un aspetto della fede che, a me pare, deve essere particolarmente tenuto presente, perché è quello che meglio permette di trasformare la vita e dimostra che lo sta facendo.
La fede biblica comporta il ri-cordare ciò che Dio ha fatto nel passato, prendere consapevolezza che egli continua ad operarlo al presente  e avere la speranza certa che continuerà a mantenere le promesse nel futuro.
La consapevolezza della presenza operante di Dio nella storia è costitutivo essenziale della nostra fede. La creazione non è un fatto relegato al passato, essa continua oggi, così come oggi Dio continua a chiamare ad una comunione intima con lui in Cristo il quale continua  ad essere unito alla umanità oggi, e continua a fermentare la storia oggi, in perfetta sintonia con l’azione continua dello Spirito. Dio associa l’uomo nella realizzazione progressiva del suo disegno, ma continua ad esserne ogni momento il protagonista. E’ il suo Spirito che la fermenta tutta. Quanto all’uomo Egli lo costituisce suo tempio vivente con la sua attuale presenza, e lo trasforma con la sua grazia attualmente operante. Dio è la sorgente che continuamente dona l’esistenza, la vita, la grazia. Se così non fosse tutto cesserebbe, come finirebbe di esistere il ruscello se non fosse più alimentato dalla sorgente.

  Questo senso dell'azione di Dio continuamente operante è quello che maggiormente è scomparso nel mondo; la nostra cultura ne ha perso la percezione (LF 17). Si direbbe che essa, nella migliore delle ipotesi, ha relegato Dio ad una specie di trapassato remoto di cui si è perduta la traccia. Una specie di “motore immobile” che ha dato la prima spinta mettendo in movimento l’universo del quale, ora, si disinteressa totalmente. Per quanto  riguarda la terra, tutto è affidato e dipende dalla iniziativa dell’uomo. E questo si manifesta anche nell’impostazione di vita di tanti cristiani cosiddetti impegnati.
Vivere di fede per me significa rendermi consapevole che il Battesimo mi unisce a Cristo adesso, che in forza della consacrazione io appartengo a Cristo adesso, e che vivo la mia donazione a Lui adesso. Certo, l’attenzione non può essere continua e totale. Ma è a questo che la vera fede tende. Se trascuro di coltivare questa presenza attiva, finirò con l’alienarmi in tante altre cose e perderò il contatto con Lui. Come potrò, allora, dire di credere, se non tengo presente Colui al quale, con l’atto di fede, dico di voler rispondere?
Per chi crede davvero “Dio è vivo; e non soltanto vivo nella beatitudine del suo essere Trinità, ma è vivo nell'essere fermento della nostra storia, della nostra vita; ed è vivo attraverso l'azione molteplice ed ineffabile del suo Spirito.
Il suo Spirito rende palpitante di Dio la storia del mondo; e, se noi credessimo davvero, saremmo capaci di percepire questo palpito di Dio in maniera sconvolgente. Ci sentiremmo davvero nelle mani di Dio, e saremmo meno distratti, meno superficiali, meno sconclusionati.
Abbiamo bisogno di riscoprire quello che è fondamentale per vivificare la nostra vita, cioè  di ritrovare il Dio vivo. Abbiamo bisogno di rifare l'esperienza del profeta Elia che gridava al popolo infedele: «Dio è vivo e io sto alla sua presenza!» (A. Ballestrero, Credo nello Spirito Santo. Piemme 1998, p. 30)
Affermare "Io credo in Dio" significa portare nella realtà quotidiana in cui viviamo la certezza della presenza e dell’intervento  di Dio nella storia, anche oggi; una presenza che porta vita e salvezza, e ci apre ad un futuro con Lui per una pienezza di vita che non conoscerà mai tramonto” (Benedetto XVI. Catechesi, 23\I\2013)
Se questa esperienza diventasse dentro di noi qualche cosa di vero e di profondo, la nostra e l'altrui vita sarebbe tutta diversa.

Maria, donna di fede

Se la fede è accoglienza della Parola appare evidente che la massima espressione del credente è la Vergine Maria. “Nella pienezza dei tempi la Parola di Dio si è rivolta a Maria, ed ella l’ha accolta con tutto il suo essere, nel suo cuore, perché in lei prendesse carne e nascesse come luce per gli uomini” (LF 58b). In lei il cammino della fede raggiunge il culmine e da lei ora trasborda in tutti coloro che la sentono come Madre.
Come il papa Francesco e con le sue parole (che sintetizzano e trasformano in preghiera tutta la dottrina esposta) anche noi concludiamo la nostra esposizione rivolgendoci a Lei.

“Aiuta, o Madre, la nostra fede!
Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata.
Sveglia in noi il desiderio di seguire i suoi passi, uscendo dalla nostra terra e accogliendo la sua promessa.
Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede.
Aiutaci ad affidarci pienamente a Lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare.
Semina nella nostra fede la gioia del Risorto.
Ricordaci che chi crede non è mai solo.
Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino.
E che questa luce della fede cresca sempre in noi, finché arrivi nel giorno senza tramonto, che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore!
Amen.