Centro Meditazione Cristiana Santa Maria della Vittoria Via XX Settembre,17 Roma : Chirologia per capire la personalita': Counseling di chirologia da pagina 2 a 6 da pagina 7 a 30 da pagina 31 a 45 da pagina 46 a 60 da pagina 61 a 76 da pagina ...
Counseling di chirologia Il termine: Counseling è una parola inglese che richiama alla mente qualcosa che ha che fare con la consulenza, il consultare, il consigliare. Definizione: Il counseling è una relazione d'aiuto, è un processo in cui il consulente (counselor) ha lo scopo di massimizzare il benessere dell'individuo attraverso il potenziamento delle sue risorse. Consulente e cliente: Nel counseling i due attori si chiamano consulente e cliente e non terapeuta e paziente o esperto e allievo, proprio per sottolineare la qualità della relazione di counseling nella quale è il cliente che sceglie e decide di farsi aiutare, ma non abdicherà mai né alla sua libertà, né alla sua responsabilità nella soluzione dei suoi problemi. Alla base del counseling: C'è l'idea che se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è di dirle cosa fare o trovare delle soluzioni, ma aiutarla a comprendere il suo vissuto, la sua situazione, assumendosi pienamente su di sé la responsabilità delle scelte da fare. La relazione d'aiuto ha come finalità principale quella di restituire alla persona in difficoltà autonomia e autostima, che in parole povere non sono altro che l'abilità di cavarsela autonomamente di fronte alle difficoltà e imprevisti della vita, e alle inevitabili crisi connesse al passaggio da una fase all'altra del ciclo vitale. L'intervento d'aiuto cerca di portare il soggetto alle soglie dell'azione, è aiutato ad autocomprendersi, ad esplorare il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti, a vedere chiaramente il ventaglio delle scelte che gli si prospettano, delle competenze che la situazione richiede e dei cambiamenti possibili, la responsabilità dell'azione è in ogni caso sua. Quali sono le cose che possono sconvolgere l'ordine che abbiamo sempre dato alla nostra vita?: Le più varie, eventi tragici come la perdita di un lavoro, o la necessità di riciclarci, una separazione, un lutto, una malattia, oppure piccoli avvenimenti all'apparenza di poco conto, che in realtà sono la fatidica goccia che fa traboccare il vaso e lo stress accumulato e non più contenuto ci sommerge. Critici e scatenanti possono essere anche gli inevitabili passaggi legati all'età, come la scelta degli studi, la genitorialità, il pensionamento, la maternità e così via, eventi molto intensi e coinvolgenti che possono essere fonte di gran gioia o al contrario di gran turbamento e disorientamento a secondo del momento e delle condizioni in cui siamo quando ci capitano. In conclusione il cliente del counseling siamo tutti noi, quando non ce la facciamo da soli ed abbiamo bisogno d'aiuto. Chirologia: Il termine nasce dall'unione di due parole d'origine greca "kheir" (mano) e "logos" (qui nel senso di discorso, meglio trattazione). Il "Grande dizionario della Lingua Italiana" del Battaglia (Utet-Torino) ne dà questa definizione: "Scienza che tenta di dedurre i dati fisico-psicologici di una persona dallo studio della mano". Non predico il futuro "Ma" oriento la persona, seguendo la via che mi fornisce l'interpretazione di tutte le forze create da ciascuno dei segni e degli elementi che si possono leggere dall'analisi di una mano. Le forze che parlano al chirologo attraverso la mano non sono altro che l'essenza della nostra personalità, delle nostre azioni. Non predico il futuro: "Perché" fare previsioni è rischioso e crea delle trappole esistenziali e psicologiche in individui già intrappolati nella loro storia personale, da cui non sanno uscire. Se una predizione "positiva" può essere gratificante, non è detto che non sia illusoria, così come una predizione "negativa" può diventare un'immagine in cui l'individuo tende ad identificarsi, facendola avverare. Il counseling di chirologia: "Non si" occupa di previsioni d'eventi che sono solo tendenze ad accadere, ma di analizzare la struttura del carattere delle persone, il loro temperamento, le loro potenzialità, i loro talenti e il loro Talento individuale, in pratica la loro vera natura seppellita sotto infinite zavorre. Analizza anche i punti deboli sia a livello psicologico che fisico, l'orientamento vocazionale, la direzione e le modalità espressive dei sentimenti, delle emozioni e della sessualità. Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 enricopallocca@gmail.com
lunedì 28 luglio 2014
Centro Meditazione Cristiana Santa Maria della Vittoria Via XX Settembre,17 Roma : Chirologia per capire la personalita'
Centro Meditazione Cristiana Santa Maria della Vittoria Via XX Settembre,17 Roma : Chirologia per capire la personalita': Counseling di chirologia da pagina 2 a 6 da pagina 7 a 30 da pagina 31 a 45 da pagina 46 a 60 da pagina 61 a 76 da pagina ...
Counseling di chirologia Il termine: Counseling è una parola inglese che richiama alla mente qualcosa che ha che fare con la consulenza, il consultare, il consigliare. Definizione: Il counseling è una relazione d'aiuto, è un processo in cui il consulente (counselor) ha lo scopo di massimizzare il benessere dell'individuo attraverso il potenziamento delle sue risorse. Consulente e cliente: Nel counseling i due attori si chiamano consulente e cliente e non terapeuta e paziente o esperto e allievo, proprio per sottolineare la qualità della relazione di counseling nella quale è il cliente che sceglie e decide di farsi aiutare, ma non abdicherà mai né alla sua libertà, né alla sua responsabilità nella soluzione dei suoi problemi. Alla base del counseling: C'è l'idea che se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è di dirle cosa fare o trovare delle soluzioni, ma aiutarla a comprendere il suo vissuto, la sua situazione, assumendosi pienamente su di sé la responsabilità delle scelte da fare. La relazione d'aiuto ha come finalità principale quella di restituire alla persona in difficoltà autonomia e autostima, che in parole povere non sono altro che l'abilità di cavarsela autonomamente di fronte alle difficoltà e imprevisti della vita, e alle inevitabili crisi connesse al passaggio da una fase all'altra del ciclo vitale. L'intervento d'aiuto cerca di portare il soggetto alle soglie dell'azione, è aiutato ad autocomprendersi, ad esplorare il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti, a vedere chiaramente il ventaglio delle scelte che gli si prospettano, delle competenze che la situazione richiede e dei cambiamenti possibili, la responsabilità dell'azione è in ogni caso sua. Quali sono le cose che possono sconvolgere l'ordine che abbiamo sempre dato alla nostra vita?: Le più varie, eventi tragici come la perdita di un lavoro, o la necessità di riciclarci, una separazione, un lutto, una malattia, oppure piccoli avvenimenti all'apparenza di poco conto, che in realtà sono la fatidica goccia che fa traboccare il vaso e lo stress accumulato e non più contenuto ci sommerge. Critici e scatenanti possono essere anche gli inevitabili passaggi legati all'età, come la scelta degli studi, la genitorialità, il pensionamento, la maternità e così via, eventi molto intensi e coinvolgenti che possono essere fonte di gran gioia o al contrario di gran turbamento e disorientamento a secondo del momento e delle condizioni in cui siamo quando ci capitano. In conclusione il cliente del counseling siamo tutti noi, quando non ce la facciamo da soli ed abbiamo bisogno d'aiuto. Chirologia: Il termine nasce dall'unione di due parole d'origine greca "kheir" (mano) e "logos" (qui nel senso di discorso, meglio trattazione). Il "Grande dizionario della Lingua Italiana" del Battaglia (Utet-Torino) ne dà questa definizione: "Scienza che tenta di dedurre i dati fisico-psicologici di una persona dallo studio della mano". Non predico il futuro "Ma" oriento la persona, seguendo la via che mi fornisce l'interpretazione di tutte le forze create da ciascuno dei segni e degli elementi che si possono leggere dall'analisi di una mano. Le forze che parlano al chirologo attraverso la mano non sono altro che l'essenza della nostra personalità, delle nostre azioni. Non predico il futuro: "Perché" fare previsioni è rischioso e crea delle trappole esistenziali e psicologiche in individui già intrappolati nella loro storia personale, da cui non sanno uscire. Se una predizione "positiva" può essere gratificante, non è detto che non sia illusoria, così come una predizione "negativa" può diventare un'immagine in cui l'individuo tende ad identificarsi, facendola avverare. Il counseling di chirologia: "Non si" occupa di previsioni d'eventi che sono solo tendenze ad accadere, ma di analizzare la struttura del carattere delle persone, il loro temperamento, le loro potenzialità, i loro talenti e il loro Talento individuale, in pratica la loro vera natura seppellita sotto infinite zavorre. Analizza anche i punti deboli sia a livello psicologico che fisico, l'orientamento vocazionale, la direzione e le modalità espressive dei sentimenti, delle emozioni e della sessualità. Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 enricopallocca@gmail.com
Counseling di chirologia Il termine: Counseling è una parola inglese che richiama alla mente qualcosa che ha che fare con la consulenza, il consultare, il consigliare. Definizione: Il counseling è una relazione d'aiuto, è un processo in cui il consulente (counselor) ha lo scopo di massimizzare il benessere dell'individuo attraverso il potenziamento delle sue risorse. Consulente e cliente: Nel counseling i due attori si chiamano consulente e cliente e non terapeuta e paziente o esperto e allievo, proprio per sottolineare la qualità della relazione di counseling nella quale è il cliente che sceglie e decide di farsi aiutare, ma non abdicherà mai né alla sua libertà, né alla sua responsabilità nella soluzione dei suoi problemi. Alla base del counseling: C'è l'idea che se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è di dirle cosa fare o trovare delle soluzioni, ma aiutarla a comprendere il suo vissuto, la sua situazione, assumendosi pienamente su di sé la responsabilità delle scelte da fare. La relazione d'aiuto ha come finalità principale quella di restituire alla persona in difficoltà autonomia e autostima, che in parole povere non sono altro che l'abilità di cavarsela autonomamente di fronte alle difficoltà e imprevisti della vita, e alle inevitabili crisi connesse al passaggio da una fase all'altra del ciclo vitale. L'intervento d'aiuto cerca di portare il soggetto alle soglie dell'azione, è aiutato ad autocomprendersi, ad esplorare il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti, a vedere chiaramente il ventaglio delle scelte che gli si prospettano, delle competenze che la situazione richiede e dei cambiamenti possibili, la responsabilità dell'azione è in ogni caso sua. Quali sono le cose che possono sconvolgere l'ordine che abbiamo sempre dato alla nostra vita?: Le più varie, eventi tragici come la perdita di un lavoro, o la necessità di riciclarci, una separazione, un lutto, una malattia, oppure piccoli avvenimenti all'apparenza di poco conto, che in realtà sono la fatidica goccia che fa traboccare il vaso e lo stress accumulato e non più contenuto ci sommerge. Critici e scatenanti possono essere anche gli inevitabili passaggi legati all'età, come la scelta degli studi, la genitorialità, il pensionamento, la maternità e così via, eventi molto intensi e coinvolgenti che possono essere fonte di gran gioia o al contrario di gran turbamento e disorientamento a secondo del momento e delle condizioni in cui siamo quando ci capitano. In conclusione il cliente del counseling siamo tutti noi, quando non ce la facciamo da soli ed abbiamo bisogno d'aiuto. Chirologia: Il termine nasce dall'unione di due parole d'origine greca "kheir" (mano) e "logos" (qui nel senso di discorso, meglio trattazione). Il "Grande dizionario della Lingua Italiana" del Battaglia (Utet-Torino) ne dà questa definizione: "Scienza che tenta di dedurre i dati fisico-psicologici di una persona dallo studio della mano". Non predico il futuro "Ma" oriento la persona, seguendo la via che mi fornisce l'interpretazione di tutte le forze create da ciascuno dei segni e degli elementi che si possono leggere dall'analisi di una mano. Le forze che parlano al chirologo attraverso la mano non sono altro che l'essenza della nostra personalità, delle nostre azioni. Non predico il futuro: "Perché" fare previsioni è rischioso e crea delle trappole esistenziali e psicologiche in individui già intrappolati nella loro storia personale, da cui non sanno uscire. Se una predizione "positiva" può essere gratificante, non è detto che non sia illusoria, così come una predizione "negativa" può diventare un'immagine in cui l'individuo tende ad identificarsi, facendola avverare. Il counseling di chirologia: "Non si" occupa di previsioni d'eventi che sono solo tendenze ad accadere, ma di analizzare la struttura del carattere delle persone, il loro temperamento, le loro potenzialità, i loro talenti e il loro Talento individuale, in pratica la loro vera natura seppellita sotto infinite zavorre. Analizza anche i punti deboli sia a livello psicologico che fisico, l'orientamento vocazionale, la direzione e le modalità espressive dei sentimenti, delle emozioni e della sessualità. Chi è il counselor: iscritto albo professionale Discipline BioNaturali Olistiche per la Salute SINAPE Licenza in Scienze Sociali presso la Pontifica Università San Tommaso d'Aquino Roma Enrico Pallocca Coaching Cognitivo Terapia delCampo Mentale TFT Tel: 3337422760 Bed&Breakfast Mina Castel Rigone Passignano sul Trasimeno Via dell'Ospedale 1 enricopallocca@gmail.com
Chirologia per capire la personalita'
Villa Mina Via dell'ospedale 1/3
06063 Passignano sul Trasimeno (Perugia)
Località Lago Trasimeno Castel Rigone
tel. 0757824761 fax 0757824761 cell. 3395018638
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sabato 19 luglio 2014
martedì 1 luglio 2014
Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa di Gesù
VIDEO DI: Eduardo Sanz de Miguel santa Teresa di Gesù
INQUIETA E
VAGABONDA
Insegnamenti
di santa Teresa di Gesù per i nostri giorni
P. Eduardo
Sanz de Miguel, o.c.d.
In queste pagine riflettiamo sul «femminismo» di santa Teresa, sulla novità
del suo messaggio per la sua epoca e sulla attualità dello stesso per i nostri
giorni. In particolare, ci soffermeremo su quattro aspetti che caratterizzano
Teresa di Gesù: donna, scrittrice, fondatrice e maestra d’orazione.
Contenuto
P. Eduardo Sanz de
Miguel, o.c.d.
Inquieta y andariega. Enseñanzas de santa Teresa de Jesús
para nuestros días
Imprimi potest. P. José Francisco Santarrufina Alcaide, Provincial de los
Carmelitas Descalzos de Aragón-Valencia. Valencia (España), 20 de mayo de 2014.
Nihil Obstat.
Imprimatur. Monseñor Amancio Escapa
Aparicio, Obispo Auxiliar de la Arquidiócesis de Santo Domingo y Vicario General
de la misma. Santo Domingo (República Dominicana), 30 de mayo de 2014.
1. Introduzione
Stiamo celebrando il
quinto centenario della nascita di santa Teresa di Gesù (1515-1582), madre
spirituale del Carmelo Scalzo. Oggi la sua famiglia si estende in tutto il
mondo e consta di circa 13000 monache carmelitane scalze contemplative, circa
4000 frati carmelitani scalzi, circa 60 congregazioni religiose di vita attiva
e istituti secolari affiliati all’Ordine, un pò più di 40000 membri dell’Ordine
secolare del Carmelo Scalzo e altre varie associazioni laicali.
Ci chiediamo chi è che,
ai nostri giorni, legge ancora gli scritti dei grandi teologi contemporanei di
Teresa, come Domingo de Soto, Alfonso Salmerón, Juan Arza, Francisco de
Vitoria, Alfonso de Castro, Diego de Covarrubias o Melchor Cano, che tanta
importanza ebbero nel concilio di Trento. Al contrario, le opere di santa
Teresa continuano a essere tradotte e pubblicate in numerose lingue. Nel 2008 è
stato pubblicato un volume di bibliografia teresiana che raccoglie 12647 titoli
su santa Teresa, tra biografie, studi storici, letterari e teologici, materiale
audiovisivo, ecc. Il cospicuo numero di queste pubblicazioni ci dà un’idea del
grande interesse che questa donna continua a suscitare in tutto il mondo.
Ma, che cosa la rende
così attuale da farci ancora interessare a lei dopo tanto tempo? La risposta è
semplice: la sua esperienza. Teresa non teorizza su questioni più o meno
importanti, slegate dalla vita concreta, ma piuttosto mira all’essenziale: condivide
l’esperienza di Dio che le si manifesta nella sua storia personale e ci insegna
a incontrarlo nella nostra vita e a dialogare con Lui.
Santa Teresa morì a 67 anni
ad Alba de Tormes. Scrisse vari libri che sono oggi dei classici della lingua
spagnola e della spiritualità cristiana, nello specifico il Libro della Vita, il Cammino di perfezione e il Castello interiore (noto anche come le Mansioni), oltre a numerose poesie, lettere
e altri scritti minori. Negli ultimi quindici anni della sua vita fondò 17 monasteri
di monache e 15 di frati. Dopo la sua morte, altri conventi carmelitani si
moltiplicarono rapidamente nei territori della Spagna, Italia, Portogallo,
Francia, Paesi Bassi, Inghilterra, così come fuori d’Europa.
Le pubblicazioni dei suoi
scritti si susseguirono velocemente. Il Cammino
di perfezione uscì nel 1583 ad Évora, nel 1585 a Salamanca, nel 1587 a
Valenza e l’edizione principe delle sue opere nel 1588, accompagnata da una
lunga lettera di presentazione di fra Luis de León. Nel 1590 uscì la prima
biografía di Teresa, scritta da Francisco de Ribera. Nello stesso anno iniziò
il processo di canonizzazione a Salamanca, al quale si presentarono più di 300
testimoni. Nel 1606 Diego de Yepes pubblicò una nuova biografía. E le sue opere
vennero tradotte in latino e in altre lingue europee, così che la sua influenza
si estese velocemente anche oltre le frontiere spagnole.
Fin da subito, re,
vescovi e istituzioni di Spagna, Austria, Francia, Belgio, Polonia… si
rivolsero a Roma chiedendo la canonizzazione di Teresa; benché non mancarono
accuse contro i suoi scritti, che furono confutate da autori importanti. Nel 1614,
papa Paolo V nel decreto della beatificazione afferma: «La sua memoria fiorisce
in tutto il popolo cristiano; ragion per cui non solo detto Ordine [di
carmelitani scalzi], ma anche il nostro caro figlio Filippo, re cattolico delle
Spagne, e quasi tutti gli arcivescovi, vescovi, principi, corporazioni,
università e sudditi dei regni spagnoli hanno innalzato a Noi spesse volte
umili suppliche…». Per le celebrazioni della beatificazione vennero pubblicati
incisioni, libri e poesie, con in evidenza quelle di Lope de Vega e Miguel de Cervantes.
La canonizzazione ebbe luogo nel 1622 in un’unica cerimonia con sant’Isidoro agricoltore,
sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio e san Filippo Neri.
Prima della sua
beatificazione già si parlava della sua «dottrina eminente», motivo per cui si
prese a rappresentarla nei dipinti e nelle sculture nell’atto di scrivere, a volte
illuminata da raggi divini, altre dallo Spirito Santo, altre ancora con lo
zucchetto e altri attributi specifici dei dottori. Anche le preghiere
liturgiche assunsero espressioni tipicamente riservate ai dottori, come: «concedici
di imitare ciò che fece e di realizzare ciò che insegnò… così ci alimenteremo
della sua dottrina celeste… fu dotata di ammirevole grazia d’erudizione…».
Alle numerose richieste
perché le fosse riconosciuto ufficialmente il titolo di dottore della Chiesa, da
Roma si rispondeva sempre con il tradizionale «obstat sexus» (cioè: «lo impedisce il sesso»). Ciononostante, nel
1622, durante una cerimonia pubblica, i cattedratici dell’università di
Salamanca adornarono una sua scultura con lo zucchetto e altre insegne proprie
dei dottori, e il consiglio della stessa università la nominò formalmente
dottore «honoris causa» in presenza
dei re di Spagna nel 1922. In seguito, Paolo VI la distinse con il titolo di Dottore
della Chiesa nel 1970, essendo la prima donna riconosciuta con tale titolo «in
relazione alla sua conoscenza delle cose divine e al magistero che esercita con
i suoi scritti». Dopo la sua proclamazione, soltanto altre tre donne hanno
ricevuto lo stesso privilegio (santa Caterina da Siena, santa Teresa di Lisieux
e santa Hildegarda di Bingen), il che conferma ancor più la sua originalità.
Teresa di Gesù riunisce
in sé un’instancabile attività di viaggi, acquisti di case, negoziazioni per
ottenere permessi… (che raccoglie nel libro delle Fondazioni e nelle sue innumerevoli lettere) e un profondo vissuto
interiore che sfocia in una mistica ardente (riflesso nel Castello interiore). In lei si uniscono l’introspezione e il
desiderio di comunicazione, la ferma volontà di realizzare grandi imprese e la sua
naturaleza nelle relazioni, la difesa decisa dei valori essenziali e la
capacità di ripensarne altri e di adattarsi facilmente alle circostanze
mutevoli. Questa unione armoniosa di realtà tanto diverse la rendono
particolarmente attraente. Fu anche una donna molto simpatica. La malattia, i
lavori, le umiliazioni e il disprezzo non riuscirono mai a spegnere il suo
ottimismo né il suo buon umore.
2. La discriminazione delle donne
Sappiamo che santa Teresa è maestra di orazione
e una delle più grandi mistiche della storia, ma a volte tralasciamo la sua
dimensione umana, che risalta ancor più se considerata nel contesto storico in
cui visse. Abituati come siamo a guardarla in quadri che la rappresentano tra
angeli e nuvole, possiamo dimenticare che fu una donna terrena, pienamente
cosciente della situazione di inferiorità in cui si trovava a causa del suo
sesso. Precorrendo i tempi, rivendicò con forza la possibilità che le donne
potessero formarsi e decidere da sé, senza essere soggette all’autorità degli
uomini. Questo le procurò molti problemi, a cui fece fronte con determinazione.
In questo campo è un modello per la nostra società, che ancora deve progredire
molto nell’offrire pari opportunità a ogni persona affinché possa sviluppare le
proprie capacità e decidere in modo autonomo, indipendentemente dal sesso, dalla
razza e da altre condizioni sociali o economiche.
La globalizzazione dell’informazione alla quale ci ha abituati Internet ci
permette di sapere che ai nostri giorni ci sono ancora paesi in cui alle donne
è proibito di guidare un veicolo, e in altri l’accesso alla cultura e persino
di uscire di casa senza la compagnia di un uomo. Sono immagini che feriscono,
perché ci fanno prendere coscienza del dramma di cosa significhi essere donna
in alcune regioni del pianeta: come il caso delle donne afghane costrette a
coprire totalmente il capo con i burqa, ma ancora di più delle bambine
sottoposte a mutilazione genitale nel Nord Africa, delle donne lapidate come
adultere in diversi paesi del Medio Oriente e dei femminicidi estesi in molte
regioni del pianeta.
Ma non tutti hanno la sensibilità necessaria per rendersi conto della
gravità di questi episodi. C’è chi li considera normali e perfino chi li
giustifica come espressione di una determinata cultura. Non va poi dimenticato
che la situazione del sesso femminile non è stata molto diversa in Occidente in
altri tempi e che ancora manca molto perché si raggiunga una reale uguaglianza
di diritti nella società e nella Chiesa.
Se siamo arrivati a comprendere che queste condizioni non sono normali,
malgrado siano abituali in molti luoghi, è grazie alla riflessione che molte
donne hanno fatto e alla loro lotta per ottenere pari opportunità con gli
uomini, che la società negava loro. Tra esse, Teresa di Gesù occupa un posto
particolare, sia per la profondità del suo messaggio, che per la precocità
dello stesso.
3. Santa Teresa nel suo contesto
Teresa de Cepeda y Ahumada visse durante il «Rinascimento» europeo, ai tempi della Riforma protestante e del concilio
di Trento. Tra l’altro, fu contemporanea di Erasmo da Rotterdam, Martin Lutero,
Michelangelo Buonarroti, Carlo V e Filippo II.
La sua fu un’epoca complessa, di profonde trasformazioni geografiche, che
ampliarono la percezione del mondo con la scoperta dell’America e con le
conquiste in Africa e in Asia. La società medievale (agricola e rurale, di
sussistenza) diede il via a una nuova realtà (urbana, nella quale il commercio
e le botteghe artigianali acquisirono sempre più importanza). I cambiamenti
socioeconomici furono accompagnati da nuove strutture politiche (sorsero gli
stati moderni) e culturali (le università e la stampa acquistarono
un’importanza fondamentale nella trasmissione delle idee). Possiamo parlare di
un vero cambiamento epocale, che colpì tutti gli ambiti del vivere e del
pensare. Anche le forme di praticare la religione.
Salvo le differenze, fu qualcosa di simile a quello che succede ai nostri
giorni, in cui le vecchie strutture sociali, educative, politiche e religiose
sono in crisi, al punto da disorientarci e non farci capire dove siamo diretti.
La Castiglia nel XVI secolo
Teresa nasce e vive in Castiglia, cuore pulsante della Spagna che segnava
in Occidente le strade della vita e della politica, ivi compreso la moda. In
quegli anni la «monarchia cattolica» spagnola
raggiunse il suo massimo potere economico, militare e politico. È il
cosiddetto «secolo d’oro» spagnolo,
nel quale le università di Salamanca e Alcalá erano riferimenti culturali a
livello europeo; le Belle Arti conobbero uno sviluppo e una creatività senza
precedenti nei paesi e nelle città della Spagna, che si riempirono di templi,
palazzi, ospedali, edifici pubblici e fontane.
In quel tempo composero la loro musica Juan del Encina e Tomás Luis de
Victoria e scrissero Garcilaso de la
Vega, fra Luis de León, Lope de Vega, Góngora e Cervantes.
Architetti, scultori e pittori italiani e fiamminghi si stabilirono nelle città
spagnole, che si arricchirono anche grazie alle influenze artistiche
provenienti dal lontano Oriente, attraverso le Filippine e con l’incipiente
arte coloniale americana. Mentre Juan de Herrera costruiva l’Escorial, Diego de
Siloé, Juan de Juni ed El Greco realizzavano le loro migliori opere.
Dal cuore della Castiglia, Filippo II governò un impero come mai si era
creato prima né si è ripetuto dopo, «nel quale mai tramontava il sole», formato
dalle terre della Castiglia e dai suoi possedimenti nel Nord Africa, così come
in America e nelle Filippine; dell’Aragona e dei suoi possedimenti nel sud
della Francia e nel Mediterraneo: Napoli, Sicilia, Sardegna, Oran, Tunisia, il
Rossiglione, la Franca Contea, la
Catalogna e Valenza; della Navarra, dei Paesi Bassi,
dell’Impero romano-germanico, del Milanese, del
Portogallo e delle sue colonie in Africa e Asia.
Guerre e conflitti
Non fu facile mantenere unite terre e genti così diverse e lontane tra di
loro. Le truppe spagnole si videro coinvolte in numerose guerre internazionali:
in primo luogo, le conquiste nel Pacifico e nell’America,
nelle quali parteciparono molti conoscenti e parenti di Teresa. A
tredici anni, ella era a conoscenza dell’arrivo a Toledo di Hernán Cortés,
conquistatore dell’impero di Montezuma, accompagnato da indios, animali e
frutti esotici. Poco dopo, tutti i suoi fratelli e altri parenti e conoscenti
di Avila partirono per le Indie, dove combatterono a fianco dei fedeli alla
corona contro Pizarro e i ribelli.
Tra tutti gli scontri armati dell’epoca, il più lungo e doloroso fu quello
delle guerre di religione tra cattolici e protestanti, che devastarono l’Europa
tra il 1524 e il 1648. È vero che il motivo reale era lo scontro tra le pretese
dei principi territoriali e quelle dell’imperatore, così come gli interessi
economici delle potenze europee. Ma, nello specifico, le diverse fazioni
assunsero atteggiamenti a favore di Roma o di Lutero. Ciò determinò che alcune
pratiche cristiane tradizionali che fino al concilio di Trento erano normali
(come la lettura della Bibbia o l’orazione silenziosa) fossero guardate con
sospetto e anche proibite negli ambienti cattolici, perché favorite dai
riformatori.
Le armate spagnole, oltre che nelle guerre di conquista e in quelle di
religione, si videro coinvolte in molti altri conflitti: scontri con la Francia per il controllo
di Napoli e del Milanese (lo stesso padre di Teresa partecipò come cavaliere
nella guerra di Navarra, nella quale rimase ferito sant’Ignazio di Loyola), con
il Papato per altri interessi nella penisola italiana (il famoso «sacco» di
Roma ebbe luogo quando lei aveva dodici anni), con i berberi (tribù del nord
dell’Africa) e i turchi ottomani per il controllo del Mediterraneo (la
battaglia di Lepanto ebbe luogo nel 1571), con l’Inghilterra per il controllo
dell’Atlantico (la sconfitta dell’Invincibile Armata è del 1588), con i Paesi
Bassi che cercavano l’indipendenza, con il Portogallo per diritti di
successione… senza contare le rivolte dei mori all’interno della penisola iberica
(dal 1568 al 1571 si svolse la guerra delle Alpujarras di Granada).
Troppi scontri per una popolazione di appena sei milioni di abitanti. Le
famiglie spagnole videro partire uno dopo l’altro tutti i loro uomini.
Incominciarono a mancare le braccia necessarie per la coltivazione della terra.
Questo, insieme ad alcuni anni di siccità e al continuo aumento delle imposte
per mantenere quella grande macchina bellica, provocò fame e miseria tra coloro
che non poterono emigrare. La famiglia di san Giovanni della Croce ne è un
esempio significativo. Il padre e il fratello morirono di fame e un altro
fratello sopravvisse arrabbattandosi per il resto dei suoi giorni.
L’arrivo dell’oro e dell’argento americani fece aumentare l’inflazione,
malgrado una gran quantità passasse direttamente dalle
galere ai depositi degli istituti di credito stranieri. La monarchia dovette
dichiarare bancarotta in varie occasioni. Tutto questo provocò numerose rivolte
popolari (insurrezioni nelle Fiandre, nella Castiglia, in Aragona, a Valenza,
ecc.) che furono sedate senza pietà. Il popolo dovette acuire l’ingegno e
inventare mille stratagemmi per sopravvivere. La letteratura picaresca
dell’epoca (caratterizzata dalla descrizione delle avventure dei «picari»,
popolani furbi, imbroglioni e privi di scrupoli), come La
Celestina o Il
Lazarillo de Tormes, illustra
perfettamente le contraddizioni di quel tempo.
Oltre agli ideali di conquista e guerrieri (frutto dei cinquecento anni di
scontri contro i mori durante la
Riconquista), tre caratteristiche definiscono la società
nella quale visse santa Teresa: la profonda religiosità, che impregnava tutte
le dimensioni della vita, la rigida divisione della popolazione in classi
sociali e il valore supremo della honra,
che oggi a noi risulta tanto difficile da capire.
La religiosità imperante
Indubbiamente, la caratteristica più vistosa dell’epoca è la profonda
inquietudine religiosa, che colpiva ugualmente tutti gli strati della società.
Le manifestazioni religiose erano per così dire onnipresenti e abbracciavano la
vita della popolazione in tutte le sue dimensioni, senza nessuna separazione
tra vita civile ed ecclesiale. Basti considerare il gran numero di conventi,
chiese parrocchiali, eremi e altri edifici destinati all’uso religioso, che troviamo
ancora sparsi in tutto il territorio spagnolo.
Leggendo la letteratura di quel tempo, si può notare che sia nelle città
che nelle campagne, in pubblico come nell’intimità del focolare domestico, si
parlava di questioni religiose: si discuteva sulla presenza reale di Cristo
nell’Eucaristia, sull’esistenza del purgatorio, sull’importanza di ricevere i
sacramenti con la disposizione adeguata e di fare opere buone per salvarsi...
Nei testamenti dell’epoca non mancano fondi per la celebrazione di messe e
suffragi, più o meno grandi secondo la possibilità economica del defunto. Negli
inventari che elencano gli oggetti lasciati in eredità da persone di condizioni
sociali diverse, non mancano mai quadri e sculture a tema religioso, mentre in
rarissime occasioni sono di argomento profano (basti considerare il patrimonio
dei musei spagnoli, costituito da temi quasi esclusivamente religiosi, a
differenza di quelli olandesi, basati su paesaggi, o da quelli italiani ricchi
di scene mitologiche). Lo stesso possiamo dire dei libri. Di fatto, tra la metà
del XV e la metà del XVI secolo (quando cominciano a comparire gli Indici dei libri proibiti), in Spagna si
pubblicano alcune centinia di libri di ascetica e mistica.
Proprio come Teresa bambina che leggeva vite dei Santi,
e voleva imitarli, anche Ignazio di Loyola e una moltitudine di contemporanei
avevano i Santi come modello di vita da imitare. I Santi, i professori di
teologia, i missionari e i religiosi di vita austera esercitavano un’attrattiva
per la gente del XVI secolo non meno di quella che oggi esercitano su di noi le
stelle del cinema, gli sportivi di élite
o i grandi impresari.
Inoltre, la principale attività sociale dell’epoca
consisteva nel partecipare a prediche e ad altre funzioni religiose. In tutte le
famiglie vi erano vari membri che si consacravano al servizio del Signore,
operando nella propria patria o avventurandosi in missioni d’oltremare.
Possiamo affermare che tutta la popolazione faceva parte di varie confraternite
in onore della Vergine, dei Santi o dei misteri della Settimana Santa, così
come di altre con fini assistenziali a favore dei poveri, degli orfani, dei
malati o dei carcerati.
I gruppi sociali
La seconda caratteristica è la rigida divisione della popolazione in classi
sociali chiaramente delimitate, con forme di presentarsi, comportamenti e ruoli
sociali ben definiti in ciascun caso. Possiamo parlare di cinque gruppi (con
gradazioni all’interno di ciascuno di essi).
I nobili formavano il gruppo dominante. Erano i proprietari della maggior
parte delle terre e dei beni di consumo, occupavano i posti chiave
dell’amministrazione pubblica (sia civile che ecclesiastica), vivevano di
rendite, rifiutavano il lavoro manuale ed erano esenti dal pagamento delle
tasse. Tra di loro abbondavano i convenzionalismi, i titoli e i trattamenti di
cortesia (cf. V 37,6-10).
Accanto a loro, deteneva il potere economico una borghesia dedita al
commercio, composta perlopiù da discendenti di ebrei, anche se a questo gruppo
erano vietati la maggior parte degli incarichi politici e i trattamenti
d’onore, motivo per il quale la loro maggior bramosia era incorporarsi nel
gruppo dei nobili, che spesso riuscivano a soddisfare acquistando certificati
di hidalguía con grandi somme di
denaro.
I chierici e i religiosi costituivano un gruppo numeroso (che oscillava tra
il dieci e il venti per cento della popolazione). Tra di essi vigevano le
stesse divisioni che nel resto della società. L’alto clero si dedicava
all’amministrazione delle rendite e proprietà, mentre la maggior parte dei
sacerdoti, comunità religiose e molti monasteri condividevano le difficoltà del
popolo per coprire le loro necessità vitali. Teresa apprezza sinceramente i
vescovi, religiosi e sacerdoti, che non considera «funzionari ecclesiali» ma
«capitani» dei cristiani e «difensori» della causa di Cristo (cf. C 3,1-2).
La grande massa dei contadini e operai, perlopiù analfabeti, lavorava
dall’alba al tramonto e sopravviveva a fatica con il frutto del proprio lavoro,
trovandosi in grandi difficoltà negli anni di siccità o quando, per qualche
motivo, salivano i prezzi dei beni di prima necessità.
I «poveri in canna» formavano una categoria sociale specifica, nella quale
si accedeva solo dopo aver dimostrato che non si possedevano beni né
possibilità per acquisirli, né famiglia da cui andare, per cui si poteva
aspirare ad alcuni aiuti sociali che concedevano numerose confraternite e
istituzioni assistenziali dell’epoca.
La «honra»
La terza caratteristica dell’epoca è il peculiare senso dell’«onore» o della
«honra», che era il motore ultimo di
tutte le attività e aspirazioni di quella società. Allora, la honra era intesa come un riflesso
dell’opinione altrui (la reputazione, il prestigio) e non come il possesso di
virtù. Pertanto, era onorato colui che riceveva onori dalla società, colui che
era rispettato, colui al quale si riconoscevano alcuni diritti.
Lo afferma chiaramente Lope de Vega quando nella sua opera I commendatori di Cordova scrive: «Nessun
uomo è onorato da se stesso, dall’altro riceve l’onore un uomo. Essere virtuoso
e avere meriti non è essere onorato. Da ciò è sicuro che l’onore sta in un altro
e non in se stesso». E lo riconfermano le parole di Teresa quando dice: «Gli
onori, secondo me, van sempre d’accordo con le ricchezze […]. Sarebbe, infatti,
assai strano trovare un povero onorato dal mondo! Anche se fosse degno di ogni
onore, sarebbe sempre tenuto in poco conto» (CE 2,5-6). La honra, dunque, è quello che gli altri pensano di noi, la
considerazione che di noi hanno.
La honra
si esprimeva in una serie di titoli e gesti propri di ciascuna classe sociale.
Il mancato rispetto delle convenzioni sociali era ritenuto una onta o disonore,
che doveva essere vendicato. Per honra
si poteva uccidere o lasciarsi morire di fame (si pensi a tutti i personaggi
che sfilano nella letteratura picaresca dell’epoca: laureati, nobili o chierici
in rovina, che possedevano solo una camicia, o dormivano per terra, o non
avevano da mangiare, ma non si privavano di domestica e scudiero).
La honra implicava il riconoscimento
sociale, ma era anche una vera schiavitù: il vestiario, gli alimenti, i gesti,
i modi di trattare... dovevano essere consoni alla propria condizione, il che
porta Teresa a scrivere: «Oggi il mondo è arrivato a tal punto che bisognerebbe
che le vite fossero più lunghe per poter imparare tutte le prammatiche, le
cerimonie, e le nuove significazioni di rispetto [...]. Se nel trattare con la
gente si cade in qualche distrazione e non si rende loro un omaggio maggiore di
quello che meritano, la cosa viene presa sul serio, se n’offendono, e occorre
discendere a spiegazioni, assicurandoli della nostra buona intenzione con la
scusa che in quel momento si era alquanto distratti [...]. Ci vorrebbe una
scuola soltanto per i titoli delle lettere e imparare il modo di comporle,
perché ora bisogna lasciare il margine da una parte e ora dall’altra, e stare
attenti a dare il titolo d’illustre a chi prima non si dava nemmeno del
magnifico. [...] giacché il Signore mi ha dato di esserne lontana, voglio
abbandonarlo del tutto. Se lo goda chi con tanti sacrifici si sottomette alle
sue frivolezze» (V 37,9ss).
Il lavoro manuale era considerato inadatto alla gente onorata, eccetto la
coltivazione della terra, associata sempre ai «cristiani vecchi». I discendenti
degli ebrei convertiti o degli schiavi e coloro che esercitavano uffici
considerati vili erano continuamente esposti agli oltraggi, potevano essere
messi in carcere per qualsiasi motivo e non potevano per nessun motivo aspirare
ad appartenere alle classi sociali influenti. Inoltre molti incarichi, sia
civili che ecclesiastici, erano loro proibiti.
È sorprendente la quantità di pagine che santa Teresa dedica alla «peste
della honra» o ai «brutti punti d’onore».
Insegna alle sue monache a liberarsi da questa piaga per essere veramente
libere: «il mondo oggi si governa di tal guisa che se il padre è di condizione
più bassa del figlio, questi si ritiene disonorato nel riconoscerlo per tale.
Ma questo per noi non ha luogo, perché simili sentimenti sarebbero un inferno.
Quella che fosse di più nobile famiglia abbia in bocca, meno di tutte, il nome
di suo padre, perché qui dovete essere tutte uguali». Nelle Costituzioni arriva a ordinare: «Né la
priora, né qualunque altra sia chiamata col titolo di Donna». Della honra e della fama scrive che sono «artefatti
sociali», che compromettono la verità e la libertà. Commentando il Padre nostro dedica un intero capitolo
al tema: «quanto importi non tener conto del proprio lignaggio per essere veri
figli di Dio» (CE 27).
Anche se le istituzioni civili, come quelle religiose, richiedevano ai
candidati un certificato di «limpieza de
sangre» (che dimostrasse che non erano figli illegittimi nati fuori dal
matrimonio, né discendenti di ebrei, musulmani, gitani, indi o neri), lei non
permise mai che questa norma entrasse nelle sue Costituzioni. Solo dal superamento di questa schiavitù della honra (reputazione, riconoscimento
sociale, convenzioni, pregiudizi), possiamo capire la sua libertà di spirito,
che attraeva molti e scandalizzava alcuni.
Le origini familiari di Teresa
Fino a pochi anni fa, tutte le biografie di santa Teresa incominciavano
ricordando i suoi nobili antenati (alcune contemporanee continuano a farlo,
sebbene dal punto di vista storico sia un falso). Già nei processi di canonizzazione
in molti testimoniarono che era discendente di cristiani vecchi e di nobile
famiglia «come tutti sapevano». La religiosità barocca dava per scontato che il
sangue di una Santa non potesse essere «contaminato» da ascendenti plebei.
Di fatto, quando in un fascicolo della Cancelleria di Valladolid furono
trovati dei documenti che dimostravano che il nonno paterno di santa Teresa era
un convertito dall’ebraismo che aveva avuto problemi con l’Inquisizione e fu
pubblicato un estratto degli stessi, i documenti scomparvero misteriosamente,
per cui molti si rifiutarono di crederlo. Ma i processi di nobiltà dei Cepeda
riapparvero nello stesso luogo e con lo stesso mistero nel 1986. Lì risultò che
il nonno, il padre e lo zio si trasferirono da Toledo ad Avila per cercare di
dimenticare le offese ricevute a causa delle loro origini. Nella città murata
acquistarono un casale storico e un certificato di nobiltà falso, che li
dispensava dal pagamento delle tasse e offriva loro altri privilegi, e si
dedicarono a dilapidare la fortuna accumulata con tanti sforzi, per simulare
una condizione che non avevano: quella di cristiani vecchi. I figli di Juan
Sánchez, incluso colui che sarebbe stato il padre di Teresa, si sposarono con
fanciulle della piccola nobiltà e cambiarono il cognome del padre con quello
delle loro rispettive mogli. Ad Avila condussero la vita dei cavalieri
dell’epoca: passeggiate per la città, abbigliati con stoffe costose e
accompagnati da numerosa servitù, partite di caccia in montagna, periodi nella
casa avita di campagna e – naturalmente – nessun tipo di lavoro manuale che
potesse macchiare la honra della
famiglia.
La vita di un nobile dell’epoca la descrive perfettamente il Cavaliere del Verde Gabán quando si
presenta a don Chisciotte: «Io sono un nobile più che mezzanamente ricco, mi
chiamo don Diego di Miranda, e passo la vita in compagnia di mia moglie, dei
miei figlioli e degli amici miei. Mi divertono la caccia e la pesca [...].
Possiedo circa sei dozzine di libri quali in volgare, quali in latino, alcuni
di storia, altri di devozione. [...] Qualche volta mi piace di banchettare in
casa degli amici, ma più mi diletta di convitarli in casa mia [...], ascolto
ogni giorno la messa: faccio parte coi poveri degli averi miei [...], ho Nostra
Signora in particolar devozione, e confido sempre nella misericordia infinita
di Dio Signore».
Questo è lo stile di vita che ad Avila seguirono gli zii, il padre e i
fratelli di Teresa, caratterizzato dallo sforzo di dissimulare le proprie
origini, simulare una nobiltà non posseduta e riuscire a essere honrados (ricevere onore dagli altri).
Teresa crebbe in questo contesto e da ciò possiamo evincere che tutti i suoi
benefattori furono commercianti, che molti nobili non avevano fiducia in lei e
comprendere perché lei stessa sia stata tanto critica a riguardo dei
convenzionalismi sociali e si sia soffermata tanto sulla schiavitù della honra.
Naturalmente, nel Libro della Vita
non fa riferimento ai processi familiari per ottenere un titolo di nobiltà, ma
non dice neppure che i suoi genitori fossero nobili (a differenza di tutti i
suoi biografi antichi), bensì che erano «virtuosi e timorati di Dio [...], di
molta carità con i poveri e di grandissima onestà» (V 1,1ss). In un’occasione
che il padre Gracián si mise a parlare della sua nobiltà di lignaggio, ella «si
arrabbiò molto con me perché trattavo di ciò, e disse che a lei bastava essere
figlia della Chiesa cattolica e che le pesava di più aver fatto un solo peccato
che se fosse stata discendente dei più vili e infimi villani e convertiti del
mondo». Anche parlando della fondazione di Siviglia, arriva ad affermare che lì
ricevette degli onori che non le venivano dal «lignaggio», dando a intendere
che la sua ascendenza era nota: «Ammirate, figliole mie, la potenza di Dio!
Sarà stato forse per essere io di sangue illustre che mi si fece tanto onore?»
(F 27,12).
Teresa aveva riflettuto molto su ciò, specialmente con la fondazione di
Toledo, dove vi erano molti membri dell’alta nobiltà che si dicevano suoi amici.
Nessuno di loro la appoggiò, anzi cercarono di impedire la fondazione con il
pretesto che Teresa accettò l’aiuto di un commerciante convertito
dall’ebraismo. Così racconta nelle Relazioni
spirituali: «Trovandomi nel monastero di Toledo fui consigliata da alcuni
di non dare sepoltura nella nostra chiesa se non a persone di sangue
gentilizio. Ma il Signore mi disse: “T’inganni molto, figliola, se ti lasci
guidare dalle leggi del mondo! Fissa gli occhi su di me che sono stato povero e
disprezzato! Forse che i grandi del mondo sono tali anche dinanzi a me? O che
forse voi dovete essere stimate per la nobiltà dei natali, e non per la virtù?”»
(R 8). Gesù stesso conferma Teresa nella sua maniera di agire: non deve aver
come punto di riferimento i «grandi» di questo mondo né le convenzioni sociali
del momento, tanto distanti dal vangelo.
Sottolineiamo questo argomento (come faremo in seguito nel trattare la sua
condizione di donna), perché solo così capiremo che Teresa fu una persona della
sua epoca, senza però identificarsi totalmente con essa; visse immersa nella
società castigliana del XVI secolo, ma senza integrarsi completamente con tale
società; fu cosciente di quello che i suoi contemporanei ritenevano «valori»,
ma non li ammise tutti, né lo fece allo stesso modo in cui la maggior parte li
accettava. Non fu fuori dalle strutture sociali del suo ambiente, ma si
mantenne sempre ai margini. Ciò le consentì di guardare con occhio critico ai
costumi e alle istituzioni che altri accoglievano con spontaneità. La sua stessa
religiosità non si identifica totalmente con le pratiche e devozioni del suo
ambiente.
In Teresa troviamo una
continua ricerca di quello che è unicamente reale, autentico e consistente in
mezzo alle menzogne e convenzionalismi della sua società. Andò oltre il suo
ambiente e il suo tempo, cercando nuovi orizzonti. Per questo il suo messaggio
sarà sempre attuale, perché usando il linguaggio e le forme di un’epoca
concreta, sta al di sopra dello stesso linguaggio e delle stesse forme che
utilizza fino a trascenderli. Ignorando questi presupposti, non potremo
comprendere l’originalità di santa Teresa e il vero significato della maggior
parte delle sue pagine.
Donna cosciente
Teresa fu pienamente cosciente di tutte
queste realtà. È sorprendente la quantità di riferimenti che troviamo
nelle sue opere al concilio di Trento, alle
guerre di religione, alle rivolte dei mori, agli scontri con la Francia e il Portogallo,
ai processi inquisitoriali e agli Indici
dei libri proibiti, alle conquiste americane e ai prodotti che da lì
arrivavano: patate, cocco…
Teresa ebbe contatto diretto o epistolare con persone di tutti i ceti
sociali del momento: il re Filippo II e i suoi segretari, corrieri maggiori e
amministratori, principi e principesse, viceré, cortigiani e nobili rurali, professori universitari e studenti,
contadini e mendicanti, banchieri e mercanti, muratori e trasportatori. Tra gli
ecclesiastici trattò con cardinali, nunzi e vescovi, teologi e missionari,
religiosi di quasi tutte le congregazioni contemporanee, potenti badesse e
avventurieri, senza dimenticare i numerosi santi canonizzati della sua epoca: Pio V, Pietro di Alcántara, Giovanni d’Avila, Luigi Bertran,
Francesco Borgia, Giovanni de Ribera, Giovanni della Croce. Qualcosa di
inaudito per una donna del XVI secolo e ancor più monaca di clausura!
Carattere affabile
Ci troviamo davanti a una donna dotata di una intelligenza vivace, di una
volontà intrepida e di un carattere aperto e
comunicativo. Il suo talento e la sua simpatia la resero la figlia prediletta dei genitori e caposquadra di tutti i giochi
d’infanzia. Lei stessa riconosce che «le doti di natura di cui Dio mi aveva
favorito, secondo quanto dicevano, erano molte» (V 1,8). Un suo
contemporaneo, padre Pietro della Purificazione, scrisse: «Una cosa mi stupiva
della conversazione di questa gloriosa madre, e cioè che, anche se stesse
parlando da tre o quattro ore, aveva una così soave conversazione, tali
eccellenti parole e la bocca così piena di gioia, che non stancava mai e non
c’era chi potesse congedarsi da lei». Simile fu la testimonianza di suor Maria
di san Giuseppe: «Stimolava grande gioia
guardarla ed ascoltarla, perché era molto affabile e aggraziata». Fra
Luis de León aggiunse: «Nessuno conversò con lei che non ne restasse
affascinato».
Nel visitare i monasteri che santa Teresa fondò, sorprende che in molti di
essi sono conservate alcune particolari reliquie che le appartennero: nacchere,
tamburi, flauti e altri strumenti musicali. Il fatto è che a Teresa piaceva
comporre e interpretare canzoni e poesie per animare le feste conventuali.
Diceva addirittura che uno dei segni indicativi della vera vocazione di una
novizia fosse la sua voglia di ridere.
Una volta si trovava nel monastero di Soria. La comunità elesse priora la
madre Catalina di Cristo. Una monaca domandò a una novizia il suo parere sulla
madre fondatrice. La novizia rispose con sincerità dicendo che non le sembrava tanto
santa come si aspettava, perché rideva molto. E che le sembrava più santa la
priora della casa, essendo più seria. Santa Teresa ascoltò e precisò alla
novizia: «Altolà! La madre Caterina è più santa di me perché è più virtuosa, in
questo hai ragione, io ho la fama e lei le virtù. Ma non è più santa perché
ride poco, perché questo non è una virtù, ma un difetto!».
Suor Juana de la Cruz,
badessa delle scalze reali di Madrid, quando nel 1569 conobbe Teresa, disse
alle sue monache: «Sia benedetto Dio, che ci ha permesso di vedere una Santa
che noi tutte possiamo imitare, che mangia, dorme e parla come noi e vive senza
cerimonie». In verità, ella non era amante delle cerimonie sia nella vita che
nel culto cristiano: le piacevano le cose semplici e «senza artificio».
La nipote Teresita, figlia di Lorenzo de Cepeda, alla sua morte testimoniò:
«Aveva un portamento così disinvolto e cortigiano, che per questo nessuno la
prendeva per santa; ma c’era in lei un non so che di tanta sostanza, che fece
sì che coloro che la frequentavano credessero e vedessero che era molto santa
senza sforzarsi di sembrarlo».
Per santa Teresa, l’allegria era una scelta di vita che scaturiva dal
sapersi amata gratuitamente: «[Dio] non fa discriminazione di persone; ama
tutti indistintamente. [...] essendomi impossibile manifestare tutto ciò che si
prova quando il Signore ci mette a parte dei suoi segreti e delle sue
meraviglie» (V 27,12).
La sua naturale simpatia e il suo buon umore le aprirono numerose porte e
la aiutarono a intessere una complessa rete di relazioni e di amicizie
incondizionate con persone delle più svariate provenienze sociali, anche se le
crearono serie difficoltà tra coloro che non vedevano compatibili l’affabilità
e la santità. Lei aveva molto chiaro che «quanto più sante, devono essere più
socievoli», perché «la carità cresce quando viene comunicata». Così diceva:
«Dio ci liberi dai santi imbronciati», perché «un Santo triste è un triste
Santo» e «un’anima oppressa non può servire bene Dio». E le piaceva ripetere:
«Tristezza e malinconia, non le voglio in casa mia». Ma la maggior parte dei
suoi contemporanei identificavano la santità con l’austerità e consideravano
che la semplicità e il buon umore erano sinonimi di superficialità.
4. Teresa scrittrice
Per comprendere la singolarità di Teresa di Gesù, dobbiamo soffermarci
un istante su cosa significa che ella fu scrittrice. Basta cercare di fare un
elenco di donne scrittrici precedenti al secolo XIX per renderci conto dello
scarso numero che riusciamo a ricordare. Si conservano migliaia di pagine
autografe di Teresa (cosa rara anche per gli scrittori uomini della sua epoca).
I suoi scritti sono una fedele immagine della sua persona e la migliore pista
che abbiamo per conoscerla. Lei ne era consapevole e, di fatto, nell’inviare il
manoscritto del Libro della Vita a
padre García di Toledo assicurava: «Qui le consegno la mia anima» e nello
scrivere a donna Luisa de la
Cerda chiedendole informazioni sul manoscritto, diceva:
«Visto che le ho consegnato la mia anima, non tralasci di compiere il mio
incarico».
Tuttavia, oggi non possiamo continuare ad avere il pregiudizio – tanto
ripetuto in tempi passati – secondo il quale Teresa
scrive incautamente, come parla, in maniera spontanea, senza nessuno sforzo
nella redazione delle sue opere. È certo che era amante della «semplicità e
della chiarezza», come dice in una delle sue lettere, per cui non utilizza
molti artifici retorici. È anche vero che a volte non usa bozze né ha tempo per
rileggere quello che ha scritto. Ma non dobbiamo ignorare che alcuni dei suoi
simboli sono molto elaborati e che riscrive completamente diversi suoi trattati
(il Libro della Vita e il Cammino di perfezione, per esempio, e in parte anche il Commento al Cantico dei Cantici).
Inoltre, le importanti lacune su temi conflittuali (la discendenza ebraica di
suo padre, i giudizi inquisitoriali di Siviglia e Valladolid…) e le sue
ripetute giustificazioni e scuse per aver osato scrivere, pur essendo una
donna, ci indicano che le cose non sono così
semplici come potrebbero sembrare a prima vista.
Teresa non scrive per se stessa, ma per essere letta da altri: dai suoi
confessori e consiglieri, dalle sue monache, dai suoi amici e da un’ampia
cerchia di destinatari sconosciuti ai quali vuole arrivare. Quindi, nel
raccontare la propria esperienza di preghiera, fa molta attenzione a quello che
vuole dire e anche a quello che non può o non deve dire in pubblico. Altrettanto importante, come quello che
racconta nei suoi libri, è ciò che viene messo a tacere. In parte, le sue
numerose lettere completano tali lacune. Ciò nonostante, a volte ci troviamo di
fronte a temi che non sviluppa per prudenza. Avverte così i suoi destinatari:
«Queste cose non sono da trattare in una lettera…, glielo dirò quando ci
vediamo, perché non sono cose da scrivere».
Fortunatamente, molti dei suoi collaboratori più diretti, come Girolamo
della Madre di Dio (Gracián), Giuliano d’Avila, Anna di Gesù (Lobera), Anna di
san Bartolomeo (García), Maria di san Giuseppe (Salazar)…, seguendo il suo
esempio, misero per iscritto il proprio rapporto con santa Teresa, i ricordi
dei viaggi e le fondazioni di case che condivisero, così come gli insegnamenti
che da lei ricevettero. Tutti questi libri sono un prezioso complemento agli
scritti della Santa.
Tempi difficili
Nel XVI secolo, il mondo dell’istruzione era riservato esclusivamente ai
«dotti», cioè, a coloro che godevano di studi riconosciuti. La predicazione
stessa non era consentita a tutti i sacerdoti, bensì soltanto a coloro che
possedevano permessi specifici, una delega del vescovo.
Sant’Ignazio di Loyola racconta nella sua Autobiografia che dopo la sua conversione, gli piaceva parlare di
Dio alla gente per convincerla a preticare l’orazione. Mentre era studente ad
Alcalá, l’Inquisizione lo processò e il Vicario lo rinchiuse quarantadue giorni
in prigione «senza che lo esaminassero per sapere il motivo […]. Finalmente
venne in carcere e lo esaminò su tante cose, fino a domandargli se osservava il
sabato. Lo dichiarò innocente ma gli ordinò che non parlasse di cose della fede
fino a che non avesse studiato di più, perché non aveva cultura» (nn. 61-62).
Era tale l’avversione che si aveva nei confronti dei cristiani nuovi
(discendenti da ebrei, musulmani o indios), che perfino a lui, vecchio
cristiano di indubbia provenienza, gli venne chiesto se aveva osservato il sabato,
il giorno sacro agli ebrei. Non poterono incolparlo di nulla, ma gli
proibirono ugualmente di parlare di cose della fede fino a quando non avesse
completato i suoi studi.
Da Alcalá si spostò a Salamanca, dove lo incarcerarono di nuovo per gli
stessi motivi, questa volta incatenato. Lì «fu chiamato davanti a quattro
giudici che gli chiesero molte cose sulla Trinità e l’Eucaristia e cose di
canoni […], e dopo ventidue giorni da quando lo avevano preso lo chiamarono per
ascoltare la sentenza, la quale era che non risultava alcun errore né nella sua
vita né nella sua dottrina, e così poteva insegnare la dottrina e parlare di
cose di Dio, sempre che non definisse mai ciò che è peccato mortale né veniale,
se non dopo quattro anni di studio in più» (nn. 68-70). Questa volta furono più
benevoli: gli permisero di insegnare il catechismo (la «dottrina») e parlare di
cose di Dio, senza però specificare quale materia potesse essere considerata
peccato mortale e quale peccato veniale, fino
a dopo altri quattro anni di studio. Non bastava che la sua dottrina fosse
corretta, necessitava dell’avallo degli studi. A Parigi e a Venezia si
ripeteranno processi simili. E lui era un uomo, nobile e studente di Teologia.
Immaginiamo allora le difficoltà di Teresa, che era una persona di origini
familiari oscure, con gli antenati (padre, zii e nonno) che erano stati
condannati per ebraismo, che non possedeva studi universitari, e donna!; ma che
pretendeva di parlare e scrivere su temi di orazione per trasmettere agli altri
i frutti della sua esperienza.
Alle donne non solo era negato l’accesso agli studi regolari, ma non era
visto di buon occhio neanche che sapessero leggere. La possibilità per cui
qualcuna osasse diventare maestra per mezzo della parola orale o scritta era
qualcosa di assolutamente impensabile. Tutti ritenevano che la donna fosse
debole per natura, incline al male e facilmente manipolabile dal demonio, per
cui andava guardata con sospetto. La maggior parte era convinta che dovesse rimanere
sempre sotto la tutela di un uomo. A questo proposito, si citavano principalmente
tre autorità. In primo luogo il libro della Genesi, che dice che ella fu
ingannata dal demonio nel momento del peccato originale. In secondo luogo, san
Paolo, che chiede che siano sottomesse ai loro mariti e che tacciano nella
Chiesa. Per ultimo san Tommaso, che, seguendo Aristotele, considerava la donna
un uomo incompleto. Teresa sapeva tutto questo e contro questa situazione cercò
di ribellarsi, anche se era pienamente cosciente del pericolo che correva;
perciò raccolse con apparente sottomissione
questi argomenti nei suoi scritti.
In realtà, la donna era quasi considerata alla
stregua di un oggetto, sottomessa sempre alla tutela del padre, dello sposo o
dei figli maschi. I suoi ruoli si riducevano ad assolvere il lavoro domestico,
perpetuare la specie e soddisfare le esigenze sessuali del marito al cui
arbitrio si trovava sottomessa. Fra Luis de León, per esempio, già fin dal
prologo della sua famosa opera La moglie
perfetta afferma che la missione della donna è «servire il marito,
governare la famiglia e l’educazione dei figli». E nello spiegare i servizi e
le attenzioni che deve avere nei riguardi dello sposo, chiarisce: «Non è grazia
e generosità questa attività, ma giustizia e dovere che la donna deve al
marito, e che la sua natura ha addossato a lei, creandola per questo dovere,
che è compiacere e servire, allietare e aiutare nei lavori della vita e nella
conservazione del patrimonio di colui con il quale si unisce in matrimonio […].
E poiché egli è costretto a farsi carico dei problemi di fuori, così lei lo
deve sopportare e sollazzare quando torna a casa sua, senza che nessuna
giustificazione la disobblighi» (cap. IV).
In quegli stessi anni, uno scrivano reale, Miguel Pérez de las Navas, pensava
che la sua sposa lo tradisse con un altro. Non poté trovare alcuna
giustificazione del suo sospetto, ma decise ugualmente di ucciderla per evitare
il disonore. Aspettò che sua moglie si confessasse il giovedì santo, per
assicurarsi che la mandava direttamente in cielo. Qualcosa del genere troviamo
ne Il medico del suo onore di
Calderón de la Barca. Il
protagonista, che sospetta ingiustamente
della moglie, obbliga il medico a salassarla fino ad ucciderla. Nessuno
chiese conto a questi mariti per aver ucciso le proprie mogli. Del resto, erano di loro appartenenza e potevano perciò
decidere cosa fare delle loro proprietà.
La stessa Teresa, nel raccontare la storia della fondatrice del monastero
di Alba de Tormes, dice che alla nascita fu sul punto di morire perché fu
abbandonata dai suoi genitori e parenti, che non le diedero alimenti né altre
cure per il solo fatto che era una bambina. E aggiunge: «I genitori di Teresa
avevano già quattro figlie, quando ella venne al mondo, e nel vedere che era
anch’essa una figlia, rimasero molto disgustati. Fa pena vedere i mortali
disconoscere quel che loro conviene! Completamente all’oscuro dei disegni di
Dio, ignorano i grandi beni che possono avere dalle figlie e i mali senza
numero dai figli. E tuttavia vorrebbero opporsi a Colui che sa tutto e tutto
crea, consumandosi dal dispiacere per quello che dovrebbe invece rallegrarli»
(F 20,2-3).
Donna «virile»
Non è senza significato che, quando alcuni contemporanei di santa Teresa
volevano farle un complimento dicevano che «non sembra una donna» o che «ha il
coraggio di un uomo». Lei stessa lo riconosce e raccoglie le opinioni di quelli
che dicono che il suo coraggio è più grande di quello delle donne (cf. V 8,7).
Valga d’esempio quello che accadde a padre Juan de Salinas, provinciale dei
domenicani, il quale richiamò l’attenzione di padre Domenico Báñez, perché
aveva sentito che era amico di Teresa, avvertendolo della eccessiva fiducia nei
confronti delle donne, «le cui virtù bisogna considerare sempre per sospette».
Padre Báñez gli disse che, giacché lui andava a predicare la quaresima a Toledo
e lei era lì, ne poteva approfittare per conoscerla personalmente e così poteva
comprendere il suo apprezzamento per lei. Al ritorno, Salinas rimproverò Báñez:
«Mi avete ingannato! Mi avete detto che era una donna e secondo me è un uomo, e
di quelli molto virili!».
Malgrado i pregiudizi antifemministi della sua epoca, la vita e gli scritti
di Teresa sono una difesa ad oltranza del diritto della donna a pensare da se
stessa o a prendere decisioni autonomamente: non vuole che qualcuno si intrometta
nella vita quotidiana delle sue monache. Dovette fare molti sforzi perché esse
potessero autogestirsi, perché avessero
libertà di scegliere confessori e consiglieri, e non stessero sottomesse
in tutto agli uomini: qualcosa di inconcepibile nella sua epoca.
Lo vediamo in modo speciale nella corrispondenza degli ultimi anni: «Questo
è ciò che temono le mie religiose: la venuta di alcuni pesanti superiori che le
opprimano e le aggravino troppo» (Lett. 89,1 a padre Girolamo Gracián, del 19/11/1576);
«Ritengo molto importante il fatto di stabilire per sempre che i confessori non
siano vicari (cioè superiori) delle religiose. [...] È anche necessario che non
siano neppure soggette ai priori […]. Ciò che riguarda le nostre Costituzioni
non è necessario trattarlo al Capitolo dei frati né informare gli altri» (Lett.
159,1.4 a padre Girolamo Gracián, del 02/1581); «non è necessario informare i
frati sulle nostre cose» (Lett. 59,4
a padre Girolamo Gracián del 02/1581).
Oggi ci sembra assurdo che in una società che si proclamava cristiana si
proibisse l’accesso alla Bibbia alle persone analfabete in genere e alle donne
in particolare. Ma era così. Teresa si ribella contro quella situazione, il che
però non impedì che il suo Commento al
Cantico dei Cantici venisse bruciato. Con molta cautela, ma con forza,
paragona quelli che vedono il pericolo nella lettura della Bibbia ad animali
velenosi che trasformano in veleno tutto quello che toccano: «Ho sentito di
alcuni che evitavano perfino di udirle [le cose che dice il Cantico dei Cantici]! Oh, Dio! Quanto è
grande la nostra miseria! Ci avviene come a certe bestie velenose che cambiano
in veleno tutto quello che mangiano. Mentre il Signore ci concede tante grazie
nel farci intendere quel che avviene in un’anima che Egli ama; mentre
c’incoraggia a intrattenerci e a deliziarci con Lui, noi ne prendiamo paura e
interpretiamo le sue parole secondo la debolezza del nostro amore» (Pensieri sull’amore di Dio 1,3).
Da parte sua, conservò l’amore per la lettura di quei pochi testi della
Sacra Scrittura che aveva potuto trovare tradotti, in special modo per i vangeli:
«Io ho sempre amato molto le parole del vangelo e in qualche circostanza mi
hanno procurato maggior raccoglimento le espressioni originali uscite dalla
bocca santissima di Gesù che non i libri stilati nella maniera più elegante»
(CE 35,4). Era anche convinta del fatto che nella Bibbia si trova ciò di cui
abbiamo bisogno di sapere per vivere come cristiani e per poter arrivare alla
pienezza mistica, per cui usa molte delle sue immagini per spiegare le sue
idee. Si lamenta solo di non conoscerla meglio: «Oh, Gesù, se potessi conoscere
tutti i passi della Sacra Scrittura tendenti a far comprendere [queste cose
dell’orazione]!» (7M 3,13).
Allo stesso modo che con la lettura della Bibbia, accadeva con la pratica
dell’orazione personale (la meditazione, la riflessione, la vita interiore).
Anche se oggi ci risulta incomprensibile, allora era un campo vietato per le
donne. Teresa dovette battersi continuamente contro quelli che affermavano che
«l’orazione mentale non è per donne, perché vengono loro illusioni; sarà meglio
che filino; non hanno bisogno di tali raffinatezze; bastano loro il Pater Noster e l’Ave Maria…» (CE 35,2).
Contro l’opinione della maggioranza, lei afferma che, nel campo
dell’orazione, le donne arrivano ad essere migliori degli uomini: «come ho
inteso dire dal santo fra Pietro d’Alcántara e io stessa ho constatato, Dio
concede queste grazie più alle donne che agli uomini, e le donne vi fanno più
profitto degli uomini. Il medesimo santo spiegava la cosa con eccellenti
ragioni che qui non è il caso di riportare, tutte in favore delle donne» (V 40,8).
E avverte le sue monache perché fuggano come dallo stesso demonio da quelli che
pretendono di convincerle del contrario.
Dal fuso alla penna
Teresa era pienamente consapevole della situazione d’inferiorità in cui
si trovava ed ebbe bisogno di usare continuamente le sue abilità persuasive
perché le sue opere (e lei stessa) non andassero a finire al rogo. In tutti i
suoi libri insiste sul fatto che lei avrebbe dovuto occupare il suo tempo a
filare col fuso, che era proprio quello che la società contemporanea si
aspettava da una donna. E aggiunge che se scrive è «per obbedienza» ai suoi
confessori o, perlomeno, «con il loro permesso».
Malgrado tutto, in certe occasioni manifesta il suo desiderio di scrivere,
consapevole che ha qualcosa di prezioso da dire: «Ho mandato a chiedere il
libro [della Vita] al vescovo, perché
forse avrò voglia di finirlo aggiungendovi quello che poi mi ha dato il Signore»
(Lett. 8,19 a
don Lorenzo de Cepeda, del 17/01/1577). Neppure è raro trovare nei titoli dei
capitoli commenti come: «qui offro alcuni avvisi importanti» o «contiene molta
buona dottrina». L’ultimo capitolo del Libro
della Vita, per esempio, si intitola così: «Prosegue nel racconto delle
grandi grazie che Dio le ha fatto. Da qualcuna si può cavare molta buona
dottrina, giacché questo è lo scopo principale di questo scritto, come
già si disse, dopo quello di obbedire». Qui dice chiaramente che il suo principale intento nel mettersi a
scrivere è insegnare una dottrina che lei possiede e che considera «molto
buona».
Sono anche ben noti i suoi sforzi per pubblicare il Cammino di perfezione, a
causa della diffidenza che avesse sulla fedeltà delle numerose copie che si
stavano ricavando dai suoi manoscritti. Lei era consapevole che quell’opera e
le altre potessero aiutare molto i suoi lettori, ma non osando elogiarle
direttamente, raccoglie a volte le parole degli altri, come quando afferma nel
prologo del Castello interiore che proverà a riscrivere cose
che aveva già scritto ed erano piaciute a coloro che le avevano lette, sebbene
ora fossero andate perdute (non poteva dire direttamente che erano in mano
all’Inquisizione e che avevano fatto male a requisirle, perché la dottrina era
buona, ma lo fa comprendere): «Sarò felice se riesco a ripetere alcune cose che
dicevano che erano ben dette».
Sono molti gli autori che continuano a insistere sul fatto che Teresa non
scrisse di propria iniziativa, ma «per obbedienza», quando la realtà è
totalmente diversa: lei ha dovuto eludere le molte difficoltà che frapponeva la
sua epoca perché una donna si dedicasse alla scrittura, per questo sviluppò una
retorica della sottomissione, che bisogna tenere ben presente se vogliamo
comprenderla.
Teresa sapeva che era necessaria l’approvazione da parte dei dotti, quegli
uomini che avevano autorità per determinare l’ortodossia o l’eterodossia dei
suoi scritti. Dalla loro approvazione o dal
loro diniego dipendeva la possibilità di diffonderli o no, di influire
sui lettori, trasmettendo loro le sue idee o, viceversa, che le sue intuizioni
morissero con lei. Ciò spiega il suo continuo andirivieni dagli uni e dagli
altri, cercando sempre quelli più affini ideologicamente, chiedendo loro di
leggere e revisionare le sue opere, accettando di perfezionare le sue
espressioni o anche di riscrivere trattati interi qualora essi glielo avessero
chiesto. Di fronte alla necessità di passare al vaglio della censura, si sottomette
sempre al parere dei censori e accetta le loro correzioni. Sapeva che era
meglio uno scritto mutilato che un testo proibito.
Per guadagnare il favore dei censori, ad ogni passo cerca di giustificare
la sua attività, mostrandosi come inoffensiva, confessando di accettare gli
argomenti sull’inferiorità della donna (sebbene subito affermi il contrario),
insistendo che «me lo hanno molto comandato… in tutto mi sottopongo al parere
di quelli che sanno più di me… trovo difficile mettermi a scrivere, quando
dovrei occuparmi nel filare… di questo dovrebbero occuparsi altri più esperti e
non io, perché sono molto debole e vile… poiché non ho cultura, potrà essere
che mi sbagli… scrivo per donne che non comprendono altri libri più
complicati…» e cose simili.
Malgrado tutti i suoi sforzi, nei margini dei suoi scritti possiamo trovare
annotazioni dei censori come la seguente: «Pare che rimproveri gli inquisitori
che rimuovono libri d’orazione». E depennarono con tanta furia lo sfogo del suo
cuore, che non si è potuto leggere fino a tempi più recenti, con l’aiuto dei
raggi X, e ancora oggi alcune righe non si possono decifrare: «Signore della
mia anima, quando andavate per il mondo non avete aborrito le donne. Anzi le
avete favorite sempre con molta pietà e avete trovato in esse tanto amore e più
fede che negli uomini […]. Che non facciamo nulla per Voi in pubblico che valga
qualcosa, né osiamo trattare di certe verità che piangiamo in segreto; ma
avverrà per giunta che non abbiate ad ascoltare domanda così giusta? Io non lo
credo, Signore, dalla vostra bontà e giustizia, perché voi siete giudice giusto
e non come i giudici della terra, i quali – figli di Adamo come sono
e, in definitiva, tutti uomini – non vi è virtù di donna
che non tengano in sospetto […]. Che non è ragionevole rigettare animi virtuosi
e forti, quantunque siano di donne» (CE 4,1).
Colpisce ancora oggi questa testimonianza personale per il fatto che le
donne erano intimidite e costrette a piangere in segreto quello che non
potevano dire in pubblico. Eppure, le sue lucide precauzioni furono utili e
riuscirono a difendere la maggior parte dei suoi scritti fino ad oggi.
A quanto sopra, si aggiunge la difficoltà di scrivere su problematiche
interiori, per le quali non servono «i termini volgari e usuali», secondo
quanto dice san Giovanni della Croce (C prologo 1). I primi scritti di Teresa
suppongono un tremendo sforzo per far luce sulle sue esperienze mistiche, come
lei stessa conferma: «Per vari anni lessi molte cose senza riuscire a
comprenderle, e per vari altri non seppi trovare parole per fare intendere quello
che Dio mi accordava» (V 12,6).
La creatività letteraria
Per farsi comprendere, comincia a sottolineare l’affinità tra quanto
esposto nei libri di certi autori e quello che sembra uguale a ciò che lei sta
vivendo. Da qui passa a scrivere brevi Relazioni,
che consegna ai suoi confessori e a persone dotte in cerca di consiglio. Più
tardi elaborerà una relazione dettagliata, la quale dopo diverse redazioni darà
luogo al Libro della Vita, in cui
ancora non domina tutti i registri del linguaggio per farsi comprendere: «mi
sentii nell’anima un certo movimento […]. Non saprei dire di che si trattasse,
neppure per via di paragoni» (V 33,9). E in un’altra occasione aggiunge: «Sto
struggendomi per darvi ad intendere in che consista questa operazione di amore,
ma non so come fare» (6M 2,3).
Chiaramente questa incapacità di comunicare le sue esperienze, la portò a rileggere tutta la sua vita, per
cercare parole con le quali spiegare a se stessa e agli altri quello che stava
vivendo. Quando non le trova, sceglie di utilizzare paragoni o inventare
immagini innovatrici che le sembrano «sante follie» (V 16,4).
Con lo scorrere degli eventi, le letture, i consulti a persone «dotte» e la
pratica, Teresa acquisisce una fluidità ogni volta maggiore ricorrendo sempre
più alla scrittura, con chiaro intento di insegnare. Tanto i suoi scritti
storici e autobiografici (Relazioni
Spirituali, Libro della Vita, Fondazioni), quanto i suoi trattati spirituali (Cammino di Perfezione, Castello interiore, Pensieri sull’amore di Dio) e legislativi (Costituzioni, Modo di visitare i monasteri) rispondono all’intuizione di essere un accompagnamento per oranti,
una guida nella conquista del proprio mondo interiore e soprannaturale nel
quale Teresa è arrivata ad essere un grande Dottore, pienamente consapevole del
fatto che in quel campo aveva una parola da dire, avallata dalla sua propria
esperienza: «Sono così difficili da dire queste cose interiori dell’anima che
passano con tanta rapidità […]. Parlo di cose soprannaturali, che sono quelle
che non si possono acquisire con il proprio sforzo né con la diligenza, anche
se si cerca molto» (CC 54,1-3).
Così, dunque, all’inizio Teresa dovette lottare con il linguaggio, con la
mancanza di parole adeguate per parlare
della sua esperienza soprannaturale; e durante tutta la sua vita dovette
confrontarsi con il contesto sociale, che discriminava le donne e non
permetteva loro di scrivere (e meno ancora su cose spirituali, sempre sospette
di luteranesimo). In modo particolare le difficoltà interiori e ambientali
furono la principale causa della sua creatività letteraria. Solo se abbiamo
chiari questi presupposti, possiamo avvicinarci alla sua vita e alle sue opere
senza fraintendere il suo messaggio, come si è fatto molte volte (forse in modo
inconsapevole, ma non innocente).
Come non è possibile capire la
Bibbia se non si tiene presente il contesto in cui fu scritto
ciascun libro (che equivale a sapere «a quali» domande concrete cerca di rispondere
l’autore) e i loro generi letterari (che equivale a sapere «come» risponde ad
esse affinché i destinatari possano capire), allo stesso modo non si possono
comprendere gli scritti di santa Teresa senza prestare attenzione a quello che
dice, a come lo dice, e anche a quello che non dice, ma che possiamo intuire
leggendo le sue lettere e altre testimonianze contemporanee.
Oggi non possono essere più attendibili alcune affermazioni avanzate negli
anni passati, quando non si possedevano studi seri sul contesto storico e sulla
personalità di santa Teresa. Ad esempio, nell’introduzione al Castello interiore, parlando della
reazione della Santa all’ordine di scriverlo da parte del padre Gracián, un
autore dice: «A questa uscita, che certamente non si aspettava, la Santa si sentì costernata e
supplicò con ardore il padre Gracián di non ingiungerle quel comando, di
lasciarle filare la sua conocchia e seguire gli atti di comunità, come tutte le
altre. Ma il Superiore non si smosse. [...]
mentre la Santa
andava pensando al modo di cominciare il lavoro, Dio venne in suo aiuto con una
splendida visione. Già da tempo la
Santa desiderava di vedere un’anima in grazia, e il Signore
che dispone le cose con soavità e sapienza, esaudì i desideri della sua serva»
(Egidio di Gesù, Prefazione al Castello
interiore, Edizioni OCD). Questo stesso autore prosegue dicendo che scrisse
il libro in uno stato di estasi e che il foglio si era tutto riempito di parole
mentre lei era raccolta in orazione. (La prima edizione risale al 1950, ma è quella
che si conserva tutt’oggi in italiano e che è stata rieditata nel 2010 con la
medesima introduzione).
La poesia come canale d’espressione
Per farsi capire, Teresa ricorre a immagini e comparazioni, anche se
insiste sempre sull’incapacità del linguaggio ordinario di verbalizzare le
esperienze più profonde: «l’anima intende che Dio l’ha chiamata, e lo intende
così bene che alle volte, specialmente sul principio, trema ed esce in lamenti,
benché nulla le dolga. Sente di essere stata ferita, ma non sa da chi, né in
che modo. Si lamenta con lo Sposo con esterne parole di amore, senza potersi
frenare, perché conosce che Egli è presente [...]. Sto struggendomi per darvi
ad intendere in che cosa consista questa operazione di amore, ma non so come
fare. Dire che l’Amato dia chiaramente a conoscere di essere con l’anima, e che
ciò nonostante chiami l’anima con un segno così evidente da escludere ogni
dubbio, con un fischio così penetrante che essa ode e le è impossibile di non
udire, sembra importare contraddizione» (6M 2,2).
Per questo cerca di esprimere con i versi quello che non può raccontare in
altro modo. Inizialmente, ella non si sente poeta. Le prime poesie nascono da
un’incontenibile esperienza mistica che cerca canali di comunicazione e scopre
che il linguaggio ordinario è insufficiente: «O mio Dio, che è mai un’anima in
questo stato! Vorrebbe cambiarsi in tante lingue per lodare il suo Dio, ed esce
in mille santi spropositi, riuscendo in tal modo a contentare Colui che la
tiene così. So di una persona che, pur non essendo poeta, improvvisava allora
strofe molto espressive, nelle quali manifestava la sua pena. Non eran frutto
d’intelligenza, ma sfoghi di anima per lamentarsi con il suo Dio e meglio
godere la gioia di cui si sentiva inondata in quello spasimo delizioso» (V
16,4).
Della sua prima poesia, lei stessa riferisce che la compose nel 1557, in un momento di
orazione, a casa di donna Guiomar de Ulloa e che le scaturì spontaneamente (Lett.
1,11 a
don Lorenzo de Cepeda, del 23/12/1561), sebbene nel trascriverla non la ricordò
interamente. Ciò che scrisse in quella occasione è quanto si è conservato fino
ad oggi. Dice così:
Bellezza incomparabile / ch’ogni bellezza anneri,
innanzi a Te che l’anima / senza ferir mi feri
ogni terreno amore / non con rimpianto muore.
Nodo che insiem sì varie / cose congiungi e tieni,
deh! Non ti sciogliere! / Se l’anima stretta al suo Dio
trattieni,
in gioie senza uguali / mutansi tosto i mali.
Quei che non è, all’Essere / che non ha fine unisci;
m’ami senza mio merito; / senza finir finisci.
Innanzi a Te, o Possente, / fai grande il mio niente (P 6).
Almeno a partire da questo momento (dell’anteriore non abbiamo certezza),
la poesia e il canto (coplas, villancicos, cantarcillos) saranno per lei mezzi importanti per esprimere i suoi
sentimenti. Alcune poesie avranno la stessa origine di quelle anteriormente
composte, altre le scriverà adeguandosi alle musiche precedenti, per essere
cantate e ballate durante la ricreazione delle monache. Avranno anche forma
dialogata, per essere interpretate da varie soliste in alternanza con il coro. Le
raccoglie nelle sue lettere, le invia come regalo alle sue amicizie, commenta quelle
che compongono altre persone e le interscambia: «Non so che cosa mandarle in
cambio di tutto quello che lei fa per noi, tranne le accluse strofette composte
da me […]. Hanno un suono piecevole» (Lett. 6,14 a don Lorenzo de
Cepeda, del 02/017/1577); «mi mandi anche le poesie» (Lett. 258,13 alla madre
Maria di san Giuseppe, dell’8/12/1581), ecc. Da allora, nel Carmelo rimase
l’usanza di realizzare e interpretare composizioni devote durante le feste
conventuali.
Quando nel 1560 sperimenta per la prima volta la trasverberazione, capisce
che il suo amore è così intenso che le sembrò come se un angelo le conficcasse una
saetta di fuoco nel petto e le strappasse le viscere, lasciandola consumata
d’amore: «un così alto amor di Dio da non sapere donde provenisse [...]. Mi
sentivo morire dal desiderio di vedere Iddio» (V 29,8). Sebbene questo episodio
sia stato rappresentato molte volte nell’arte, specialmente nella famosa
scultura del Bernini nella chiesa di Santa María della Vittoria a Roma, lei
stessa spiega che non si tratta di un angelo reale, né lo sono la saetta e il
fuoco, ma sono piuttosto le immagini sensibili con cui narra accadimenti
ineffabili: «Si tratta di una specie di ferita che sembra fatta nell’anima,
come se qualcuno ci infligga una freccia nel cuore, oppure nell’anima. Se ne ha
un dolore così vivo da uscire in lamenti, ma insieme tanto delizioso da non
voler mai che finisca. Non è già un dolore corporeo né una ferita materiale:
non si ha nulla nel corpo, ma solo nell’anima» (R 5,17).
Nel momento di servirsi dell’immagine dell’angelo con la saetta per
spiegare questa altissima esperienza dell’amore di Dio, sicuramente fu
influenzata dalla rappresentazione guardata molte volte dell’amore come Cupido,
un piccolo angelo che scaglia saette, così come dalle poesie d’amore
dell’epoca, che presentavano l’amato come un cacciatore e l’amata come una cerva
ferita, che può trovare riposo unicamente in colui che la ferì con le frecce
del suo amore. Lei stessa si servì di questo patrimonio per cantare ciò che ha
vissuto:
Tutta m’offersi / e rinnovata fui:
il Diletto è per me, / e io per Lui.
Quando il dolce Cacciatore / tese l’arco alla
frecciata,
fra le braccia dell’amore / caddi in pieno
vulnerata.
Ma ripresi nuovo brio; / e un tal foco m’arse in
petto
ché il Diletto è tutto mio / ed io tutta del
Diletto.
Mi colpì d’una saetta / infocata dall’amore,
onde l’alma stretta stretta / si congiunse al suo
Signore.
Or null’altro qui desìo; / per Lui solo è qui il
mio affetto
Ché il Diletto è tutto mio / ed io tutta del
Diletto (P 3).
Benché cercasse di passare inosservata e commentava tali esperienze
mistiche solo con il confessore, man mano che si moltiplicarono le sue grazie
mistiche, crebbero i pettegolezzi e le incomprensioni nella città, per cui fece
di nuovo uso della poesia per cercare di spiegare quello che sentiva:
Lungi da Te la vita è di dolore: / ansiosa in Te
d’immergermi,
desidero morir, o mio Signore.
Cammino interminabile, / lungo e crudele esilio,
terra in cui debbo vivere, / soggiorno di
periglio!
Signore amabilissimo, / concedimi d’uscire,
ché ansiosa in Te d’immergermi, / desidero morire (P
7).
Se la
poesia le serve per spiegare le sue ansie di cielo («Vivo ma in me non vivo / e
tanto è il ben che dopo morte imploro / che mi sento morir perché non muoio…»),
se ne avvale anche per confessare che desidera solo quello che Dio desidera e
che è disposta a rimanere sulla terra fino alla fine del mondo se con il suo
operare può salvare una sola anima («Vostra sono, per Voi sono nata, / che
volete Voi da me?)».
5. Teresa fondatrice
A 20 anni, Teresa si fece monaca carmelitana. Non aveva molte alternative.
O sottomettersi a un marito fino a morire di puerperio, come molte sue
contemporanee – inclusa sua madre – o farsi monaca. Nei
suoi scritti riflette sugli obblighi di una donna ben sposata, che deve
sottomettersi in tutto a suo marito, e sulle sofferenze di quelle che hanno un
marito geloso, confrontandolo con la libertà delle spose di Cristo (CE 38,1).
Lei stessa riconosce che, nel decidersi per la seconda opzione, non lo faceva
per motivi soprannaturali del tutto chiari: «Mi pare che a dispormi a prender
l’abito agisse di più il timore servile che l’amore» (V 3,8). Inoltre, decide
per le Carmelitane perché lì c’era la sua grande amica Juana Juárez: «Io
guardai di più ai miei gusti e alla mia vanità che a quello che fosse meglio
per la mia anima». Ma Dio sa scrivere diritto sulle righe storte.
La vita all’Incarnazione
Quando Teresa si fa carmelitana, il monastero dell’Incarnazione era un
edificio nuovo, ancora non ultimato. Il primitivo beaterio del 1478 si
trasformò formalmente in monastero verso il 1500. Da allora aveva conosciuto
diverse ubicazioni fino a quando si poté celebrare la prima messa nell’attuale
posizione il 4 aprile 1515, lo stesso giorno in cui lei fu battezzata. Il
gruppo iniziale di 14 religiose non aveva smesso di crescere, arrivando ad
essere di 120 nel 1540, 165 nel 1548 e 200 pochi anni dopo. I costi sostenuti
per la costruzione di nuove celle e parlatori ritardavano il completamento della Chiesa e indebitarono
gradualmente la comunità.
La struttura di questo e di qualsiasi altro monastero dell’epoca era un
riflesso della società contemporanea, e differiva molto da quella che possiamo
trovare oggi nelle comunità religiose. La comunità era composta da una piccola
minoranza di monache con sincera vocazione, che volevano dedicarsi totalmente
al servizio del Signore. Tra di loro ce n’erano alcune esemplari e anche sante.
Inoltre, dato che non si accettava che una donna potesse rimanere nubile e la
maggior parte degli uomini giovani erano arruolati nell’esercito o in America,
i monasteri si trasformavano in residenze di figlie di buona famiglia per le
quali i genitori non avevano ottenuto un partito conforme alla loro condizione,
così come di bambine e adolescenti, figlie ribelli, pie vedove, e, nel caso dei
monasteri più potenti, membri delle grandi famiglie, che si servivano dei beni
e dei possedimenti del monastero per aumentare il loro patrimonio e l’influenza
sociale. Ad ogni modo, poiché ogni monastero era giuridicamente indipendente
(compresi gli appartenenti a una stessa famiglia religiosa), le cose potevano
cambiare molto dall’uno all’altro.
– Le religiose che
potevano contribuire con una dote e sapevano leggere erano di «velo nero»,
erano obbligate alla recita delle Ore canoniche nel coro e avevano voce e voto
nei capitoli conventuali.
– Quelle che non
potevano contribuire con una dote erano di «velo bianco» e si dedicavano ai
servizi domestici, senza avere obbligo della recita corale (che si sostituiva
con un determinato numero di «Pater
Noster») e senza poter partecipare alle riunioni nelle quali si prendevano
decisioni conventuali. Erano chiamate «converse». Queste ultime e le serve
avevano dormitori e mense comuni, dove molte volte mancava l’essenziale.
– Le «nobildonne» che se
lo potevano pagare avevano ampi appartamenti con cucina propria, dispensa,
oratorio, sala per ricevere e camera da letto (è il caso di Teresa). Inoltre,
potevano portare con sé vestiti, gioielli, familiari e serve che pulivano loro
l’appartamento e preparavano le loro pietanze e perfino cani e altri animali da
compagnia. Conservavano i loro cognomi, i titoli e i privilegi sociali delle
loro famiglie di provenienza ed erano esentate dalla preghiera in comune, così
come da altri obblighi.
Il monastero non era in
grado di alimentare tutte le monache e curare tutte le inferme, per questo
molte trascorrevano periodi più o meno lunghi nelle case dei loro genitori o di
altri parenti o benefattori. Quando Teresa vi entra, ci sono 50 religiose in
questa situazione. Successivamente, anche lei risiederà lunghi periodi fuori
dal monastero.
Oltre a questi tre tipi
di religiose («di coro», «converse» e «nobildonne») e delle bimbe e donzelle
interne, nelle proprietà del monastero c’erano case per gli ortolani, per
l’amministratore delle rendite e per gli altri servi che si prendevano cura
delle stalle, dei fienili e del pollaio, pascolavano i greggi, raccoglievano i
fitti che il monastero aveva in vari paesi (frutto di doti di alcune monache o
di eredità di secolari in cambio di essere sepolti nella chiesa e di
determinati suffragi per le loro anime), portavano il grano nei mulini e la
farina ai forni, ecc. La comunità, come prassi, aveva anche cappellani e
confessori, medici, chirurghi, notai, procuratori e letterati. Perciò,
l’Incarnazione sembrava più una piccola città che non quello che oggi
identifichiamo con un monastero. Lì c’erano donne di tutte le condizioni
sociali, tanto tra le monache quanto tra le secolari.
Com’è naturale, tra
quelle che erano obbligate dai loro familiari a rimanere nel monastero, ce
n’erano molte demotivate. Riguardo ad esse scriverà santa Teresa che «sono con
più pericolo che nel mondo», e che «è preferibile accasarle molto umilmente che
metterle nei monasteri». Descrive anche alcune usanze alle quali lei non
partecipò mai, ma che erano molto comuni tra queste donne senza vocazione: «curavo assai quelle esteriorità che il mondo
ha tanto in pregio […]. Però, io non ne ho mai abusato, né ho mai fatto nulla
senza il debito permesso. […] nessuno avrebbe potuto parlare con me in
monastero di notte, attraverso fori o dietro i muri» (V 7,2).
Già abbiamo detto che
Teresa si fa monaca senza una chiara consapevolezza vocazionale: «Benché ancora
non mi decidessi per il chiostro, vedevo tuttavia che quello era lo stato
migliore e più sicuro, e così a poco a poco mi risolvevo ad abbracciarlo» (V
3,5). Tuttavia, le pie letture, il buon esempio di alcune sorelle e il suo
carattere generoso la fecero arrivare a prendere molto sul serio quella vita.
Nel monastero trovò una pace e una gioia che la pervasero. Si sentiva così a
proprio agio che non aveva nostalgia delle sue precedenti occupazioni: «soprattutto quando mi avveniva di spazzare
in quelle ore che prima solevo occupare in vanità» (V 4,2).
La giovane monaca si
dedicava con entusiasmo alle pratiche religiose: confessioni frequenti,
orazione nel coro, servizi alle sorelle, compimento di umili uffici, digiuni e
penitenze. In quest’ultimo campo non aveva chi la guidasse attraverso le vie
della moderazione e la sua impetuosità la portò ad estremi esagerati che più
tardi condannerà nelle sue opere. Una testimone dirà: «Faceva tante grandi e
straordinarie penitenze, che le ridussero la salute». Effettivamente, gli
eccessi furono sul punto di ucciderla: «Gli svenimenti aumentarono, con
l’aggiunta di un mal di cuore così violento che quanti mi assistevano ne
rimanevano spaventati […]. Il male si
aggravava sempre più, tanto che, abitualmente, ero quasi fuori dei sensi, e
molte volte fuori del tutto»
(V 4,5). È risaputo che le cure di una «guaritrice» di Becedas la stavano quasi
uccidendo e che in seguito guarì per intercessione di san Giuseppe.
Trascorse
all’Incarnazione 27 anni dedicandosi alle
preghiere comunitarie, alla lettura spirituale, all’orazione personale nel suo
oratorio privato, all’assistenza della sorella più piccola (che condividerà la
sua cella per dieci anni dalla morte di suo padre fino al suo matrimonio, come
lo faranno più tardi anche altre due parenti), alle cure verso le inferme della
casa e all’attenzione nei riguardi di numerose persone che sollecitavano la sua
compagnia nel parlatorio. I testimoni dell’epoca parlano della generosità e
della pietà di Teresa, così come della sua simpatia e della semplicità del suo
rapportarsi. Molti la consideravano una religiosa esemplare. Lei, tuttavia, non
era propriamente contenta, si sentiva combattuta: «Dio mi chiamava da una parte, e io seguivo il mondo dall’altra. Le cose
di Dio mi davano piacere, e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo.
Insomma, pareva che volessi conciliare questi due nemici» (V 7,17).
Infine Dio vinse totalmente. A tale riguardo esclama: «castigavate i miei
peccati con l’abbondanza dei vostri doni!» (V 7,19) e «mi sono stancata prima
io a offenderlo che non Lui a perdonarmi» (V 19,15).
San Giuseppe d’Avila
Una sera di settembre del 1560, nella cella di donna Teresa si trovavano
riunite due sue nipoti che lì allevava, e altre dieci amiche religiose, per
commentare una lettera circolare che il re Filippo II aveva fatto pervenire a
tutti i monasteri, nella quale esponeva i danni causati dai luterani in Francia
e nel resto dell’Europa, chiedendo preghiere per l’unità della Chiesa.
Cominciarono a trattare del gran bene che fa la preghiera dei buoni religiosi,
degli antichi eremiti del Monte Carmelo, di fra Pietro di Alcántara e delle
Scalze reali, che egli aveva riformato, di come sarebbe bello vivere in una
comunità simile… Sua nipote Maria de Ocampo assicurò che, se si realizzava, avrebbe
apportato mille ducati e Donna Guiomar, che si era unita al gruppo, promise
anche il suo aiuto. Teresa non era molto convinta, fino a quando pochi giorni
dopo sentì, mentre si comunicava, che il Signore «mi ordinò decisamente di far
di tutto per attuare quel disegno, assicurandomi che il monastero si sarebbe
fondato» (V 32,11).
Furono due anni di lotte continue. I suoi conoscenti (specialmente il
confessore) dissero che era una follia. Lei voleva pareri autorizzati, perciò
scrisse a san Pietro di Alcántara, a san Francesco Borgia e san Luigi Bertran,
i quali risposero appoggiandola incondizionatamente. Anche il provinciale dei
Carmelitani approvò la fondazione, per cui decide di chiedere un Breve papale
per realizzarla. Quando si venne a sapere la notizia all’Incarnazione e nella
città, la maggior parte si schierò contro, per cui il provinciale ritirò il suo
appoggio (cf. V 32,15).
L’accusavano di essere allucinata e indemoniata, per cui chiese il parere
del teologo più rinomato in quel momento ad Avila: il domenicano padre Pietro
Ibáñez, per il quale scrisse un lungo memoriale di 40 paragrafi dove espose la
situazione del suo spirito, è la prima Relazione
spirituale che conserviamo: «Ecco come ora faccio orazione. È raro che
nell’orazione possa discorrere con l’intelletto, perché l’anima comincia subito
a raccogliersi e ad entrare nella quiete o nel rapimento, per cui non posso più
servirmi delle potenze e dei sensi […]. Ne ho riportato una ferma risoluzione
di non più offendere il Signore, neppure venialmente, pronta a soffrire mille
morti piuttosto che farlo con proposito deliberato […]. Malgrado tutto, benché
sia persuasa che in me agisca il Signore, per nulla al mondo farei cosa che il
mio direttore non giudicasse di maggior gloria di Dio […]. Queste le meraviglie
che il Signore ha operato in me. E al giudizio di Vostra Grazia rimetto ora
ogni cosa» (R 1). È interessante notare che non parla di penitenze (l’ideale di
perfezione dell’epoca), ma di esperienza personale di Dio (sospetta in quel
momento di luteranesimo). Nonostante l’opposizione della città e le pressioni
che ricevette, il parere del domenicano fu positivo e l’accompagnò con un
giudizio elogiativo, scritto in 33 punti.
Rincuorata, decise di chiedere un secondo Breve papale; questa volta mettendo
il monastero sotto l’obbedienza del vescovo, giacché il precedente permetteva
di fondarlo sotto l’obbedienza del provinciale dei Carmelitani, che ora non lo
accettava. Poiché il vescovo non era neppure disposto a prendere il monastero
sotto la sua obbedienza, san Pietro di Alcántara gli scrisse una bellissima
lettera sollecitandolo: «Una persona molto spirituale, con vero zelo, da tempo
pretende di fondare un monastero religiosissimo in questo luogo […]. Per amore
di Nostro Signore chiedo alla vostra signoria che la protegga e la riceva».
Don Alvaro de Mendoza non si lasciò impressionare e tornò a manifestare il
suo rifiuto. Finalmente, san Pietro di Alcántara si diresse alla residenza di
riposo del vescovo a El Tiemblo, ma non poté strappargli una risposta positiva.
Tutto quello che ottenne fu la promessa che quando sarebbe tornato ad Avila
sarebbe andato personalmente a conoscere la monaca della quale aveva tanto
sentito parlare per ascoltare le sue ragioni. Così racconta l’incontro il
segretario del vescovo, don Juan Carrillo: «Fra Pietro di Alcántara lo condusse
al monastero dell’Incarnazione dove stava la madre Teresa di Gesù, perché
trattasse con lei l’affare della fondazione; e la sera che venne il vescovo per
fare ciò, questo testimone gli sentì dire che Nostro Signore lo aveva
trasformato completamente perché gli aveva parlato per la bocca di una donna, e
veniva convinto che per nessun motivo si sarebbe tralasciata di fare la
fondazione di San Giuseppe». In quel momento don Alvaro divenne amico e
confidente della Santa, arrivando ad essere il suo discepolo e a lasciarle i
suoi beni in eredità.
Anche se le contraddizioni esterne aumentarono, fece venire da Alba sua
sorella Giovanna e suo cognato, perché prendessero l’incarico delle opere di
adattamento di una casetta in un quartiere popolare fuori dalle mura (cf. V
33,44). Le opere si dilungarono perché taluni muri crollarono, cadendo sopra
uno dei nipoti di Teresa, il quale rimase come morto. Nel venirne a conoscenza,
si precipitò sul posto e prese da terra il corpicino, abbracciandosi ad esso.
Il bambino si svegliò e Teresa lo consegnò a sua madre. Gli operai lo ritennero
un miracolo. Lei rispose loro che sarebbe stato un miracolo se il muro fosse
rimasto in piedi, poiché era stato tanto mal costruito, e che dovevano tornare
ad alzarlo. Il denaro mancava, ma fu di grande aiuto l’inatteso arrivo di
alcune monete d’oro, inviate dall’America da suo fratello Lorenzo (Lett. 1,1-2 a don Lorenzo de Cepeda, del
23/12/1561).
Lei si fece carico personalmente di ultimare le opere di ristrutturazione:
«Accomodò una piccola porzione per la
Chiesa, con una piccola grata di legno molto spessa, da dove
le monache seguissero la messa, e un piccolissimo ingresso da dove si entrava
in Chiesa e nella casa, perché tutto, nel piccolo e povero, rappresentava la
grotta di Betlemme». Non senza nuovi lavori, si superarono le ultime difficoltà
e il 24 agosto del 1562 venne inaugurato il conventino di San Giuseppe (cf. V
36,5). Teresa aveva 47 anni.
Gli inizi furono molto difficili. I pochi amici che le restarono si
dimostrarono fedeli in quei giorni terribili. Francesco de Salcedo arrivò a
patire con pazienza burla e persecuzioni per aver visitato e favorito le
monache di San Giuseppe. Il consiglio della città convocò una riunione per
trattare il caso. Furono convocati il sindaco, quattro assessori, due
cavalieri, il vicario, tre canonici, i priori di cinque conventi maschili
accompagnati da un frate di ogni Ordine, due consulenti del municipio e due
rappresentanti del popolo: venticinque uomini riuniti per discutere sui
progetti di un gruppetto di donne. Certamente non fu consultata nessuna donna
che rappresentasse i sei monasteri femminili della città, ancor meno le
interessate. In detta riunione, padre Domenico Báñez fu il suo unico difensore.
Quando tutti erano pronti a sopprimere il nuovo monastero, fece notare che non
potevano, sotto pena di scomunica, in quanto aveva gli opportuni permessi del
vescovo e di Roma.
Poiché non lo potevano sopprimere, il Comune fece loro causa, perché
affermava che il muro di cinta del piccolo monastero faceva ombra alle fontane
pubbliche. L’argomento aveva poca consistenza, ma con questa e altre storie
simili deliberarono di presentare il contenzioso davanti al re, perché desse
ordine di chiudere il monastero. Col tempo la questione si placò e il
contenzioso fu dimenticato, venendo chiuso formalmente solo nell’anno 2012, in
una seduta straordinaria del Comune abulense in occasione del 450° anniversario
della fondazione di San Giuseppe.
All’epoca, l’importanza di una città si stimava in base al numero delle
chiese e dei monasteri che vi erano. I più apprezzati erano quelli più austeri.
Per questo stupisce l’opposizione all’opera fondatrice di Teresa. Dobbiamo
tener presente che la causa non fu essenzialmente un motivo economico. Un
monastero vicino avrebbe potuto muovere l’obiezione che le elemosine vanno
ripartite o che non ce n’erano per tutti. Ma non è questo il caso (come,
invece, lo sarà qualche volta nelle fondazioni successive). L’opposizione non
viene da uno o più monasteri, ma da tutta la città, per cui le cause vanno
cercate altrove.
Una la analizzeremo chiaramente più avanti: fino ad allora monasteri,
chiese, ospedali o istituzioni analoghe erano stati fondati da uomini, i quali
acquistavano i terreni, dirigevano i lavori e stabilivano le condizioni. Teresa
ebbe l’ardire di compiere azioni altrettanto importanti di propria iniziativa.
Inoltre, in un contesto di timore davanti alle divisioni ecclesiali causate
dalla Riforma luterana, la proposta di interiorità e vita semplice di Teresa
sapeva di protestantesimo. La fondazione di San Giuseppe assomigliava troppo
alle abitazioni della gente comune e troppo poco all’immagine di un monastero.
A nostro avviso, la vera causa della ripulsa iniziale è proprio questa.
Comunque, il Signore stesso la consolò facendole sentire nell’orazione che
«Sua Maestà volesse aiutarmi nell’erigere questo piccolo angolo di cielo, come
credo che sia questa casa nella quale Egli trova le sue compiacenze» (V 35,12),
e dicendole di non preoccuparsi «perché non sarebbe stato distrutto» (V 36,16).
Quando la gente venne a conoscenza del modo di vivere di Teresa e delle sue
monache, si superò ogni pregiudizio e tutti si affezionarono ad esse, e molti
degli antichi persecutori si trasformarono in benefattori: «Era molta la
devozione che il popolo cominciò ad avere con questa casa» (V 36,25). Per lei
cominciarono «i cinque anni più tranquilli della mia vita» (F 1,1).
Un nuovo stile di vita
Nel frattempo, a San Giuseppe di Avila si confermano i principi di base
della tradizione carmelitana, che lei aveva appreso all’Incarnazione e che mai
abbandonerà: la vita in ossequio di Gesù Cristo, segnata dall’amore per la Parola di Dio e da una
forte dimensione orante, il culto dell’interiorità
nel silenzio, i riferimenti a Maria e al profeta Elia, quali modelli di
orazione e di servizio.
All’eredità carmelitana si associano armoniosamente altre nuove intuizioni,
che daranno vita a quella che nel futuro sarà una delle più feconde correnti di
spiritualità che alimentano la
Chiesa. Non è che Teresa avesse tutto chiaro fin dal
principio: saranno la vita e il dialogo continuo con le sorelle della casa che
andranno segnando il cammino da seguire.
Ciò che ha chiaro fin dal principio è che le monache di San Giuseppe si
sono consacrate interamente al servizio di Cristo. Egli sarà il centro e la
ragione della loro esistenza, non le cose che fanno né gli uffici che
disimpegnano. Gesù sarà il loro amico, compagno e sposo, con il quale vogliono gioire,
che sono disposte a consolare e per il quale non importa loro di morire. Si
consacrano per servirlo ed amarlo, non per praticare determinate devozioni o
attività religiose, che saranno utili solo nella misura in cui favoriscono
l’unione con Cristo.
Innanzitutto, le monache di San Giuseppe saranno «un piccolo collegio di
Cristo», composto da un massimo di 13 donne (12 più la priora, come gli
apostoli attorno al Signore, anche se più
tardi il numero aumenterà fino a 21). Poche, ma con ferma vocazione. Non
ammetteranno pressioni esterne per accogliere le une o le altre, né
accetteranno persone che cercano di «ripararsi», come dice lei. Le candidate
saranno molto ben selezionate, in modo tale che entrino solo quelle che
liberamente vogliono aderire al dato stile di vita e siano qualificate per
esso. Insiste con le sue sorelle sul fatto di «non smettere mai di ricevere
quelle che vengono perché vogliono essere monache, anche se non hanno beni di
fortuna, se li posseggono di virtù». Per lei è più importante un buon
intelletto che un buon cognome o una buona dote.
Teresa cambia nome, come segno che inizia una nuova vita. Da quel momento
non si chiamerà più «Donna Teresa de Cepeda y Ahumada», ma «Teresa di Gesù».
Anche le sue compagne cambiano i cognomi civili per altri religiosi. Tra di
loro non è importante la famiglia di provenienza, in quanto tutte si
considerano uguali, figlie dello stesso Padre celeste e spose dello stesso
Signore Gesù. In principio, non si ammettono suore converse né serve, né trattamenti
che indicano l’appartenenza a uno stato superiore, giacché si cerca
l’esperienza di una fraternità intensa e semplice. «Qui tutte si devono amare,
tutte si devono voler bene, tutte si devono aiutare», scriverà la madre Teresa,
la quale aggiunge che vivranno del lavoro delle loro mani e che,
indipendentemente dall’incarico che occupano, tutte faranno il turno nei
servizi necessari per il mantenimento della casa: cucina, pulizia, lavanderia,
orto, attenzione alla portineria… «Gli uffici di pulizia, a cominciare dalla
priora».
L’autorità si eserciterà come un servizio di abnegazione, avallato dalla
vita prima che dalle leggi: «La priora cerchi di essere amata per essere
obbedita». Si adoperi perché ognuna si alimenti e riceva in base alle proprie
esigenze, indipendentemente dall’incarico e dall’età. In modo particolare,
dovrà prendersi cura delle inferme con la massima sollecitudine, arrivando a
stabilire nelle Costituzioni: «Se è necessario, che manchi l’essenziale a
quelle che stanno bene in salute per accontentare quelle inferme».
Quando più tardi mette per iscritto gli elementi fondamentali che devono
caratterizzare le Carmelitane scalze, prima di parlare dell’orazione o delle
pratiche religiose, considera che è necessario mettere in chiaro che il vero fondamento
della consacrazione religiosa consiste nelle virtù umane che favoriscono la
convivenza: la sincerità, l’affabilità, l’educazione, la gratitudine, la
laboriosità, l’igiene… Specialmente parla dell’importanza di praticare tre
virtù per poter essere veramente oranti: l’amore delle une con le altre, il
distacco da tutto il creato e l’umiltà, che le abbraccia tutte e che consiste
nel camminare nella verità.
Per Teresa umiltà, onestà, amore per la verità, conoscenza di sé… sono
parole sinonime che invitano alla naturalezza, alla «semplicità» (per dirlo con
le sue parole), a non apparire davanti agli altri, arrivando ad affermare che
«è grande sollievo camminare con chiarezza». Il suo discepolo Giovanni della
Croce dirà che «è insopportabile» l’attaccamento di alcune persone alle
cerimonie complicate e la loro mancanza di semplicità nelle cose della fede (3S
43,1).
Dopo aver parlato di ciò che lei chiama «grandi virtù», può soffermarsi su
tutto quello che si riferisce all’orazione personale delle religiose, al suo
aspetto contemplativo: saranno eremite, con stanze individuali e lunghi tempi
dedicati alla solitudine, specialmente un’ora di orazione al mattino e un’altra
alla sera. L’orazione non si intende come meditazione, sforzo dell’intelligenza
per comprendere il mistero, tale e quale pretendono quelli che «prendono le
cose in un modo così ragionevole e misurato secondo la loro comprensione, che
sembra che vogliono capire con la loro istruzione tutta la grandezza di Dio».
Al contrario, l’orazione è un «rapporto di amicizia», in cui si stabilisce una
relazione affettuosa con Cristo. Contro quello che possono dire alcuni dotti,
«non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare».
Com’è naturale nelle persone consacrate la giornata sarà segnata dalla celebrazione
dei sacramenti e dalla recita della lode divina. Anche se nel monastero si
viveva con grande povertà, Teresa amava che si spendesse il necessario per
l’ornamento della Chiesa (fiori, profumi, ornamenti liturgici, immagini
devozionali) e che le celebrazioni si facessero con dignità, ma con grande
sobrietà. Non vuole che le sue monache debbano perdere molto tempo nelle prove
di canti difficili né che le celebrazioni si trasformino in concerti o in
intrattenimenti per persone disoccupate, per cui preferisce il canto in rettotono
e le melodie semplici alla polifonia. Molte volte chiedeva ai sacerdoti amici
che spiegassero alla comunità il significato di qualche salmo o di qualche
lettura dell’Ufficio divino. Lei si comunicava ogni giorno (qualcosa di veramente
eccezionale nella sua epoca), e voleva che anche le sue monache lo facessero o,
almeno, che si comunicassero spesso.
Non prescrive pratiche devozionali (neanche il rosario, malgrado lei lo
recitasse ogni giorno), né metodi né formule di orazione: «Ciò che più vi muove
ad amare, quello fate!». Per alcune può essere utile iniziare con una lettura
spirituale e per altre guardare con attenzione un quadro o un’immagine. Per
qualcuna può servire rimanere in ginocchio e per un’altra stare seduta. Le pie giaculatorie
saranno utili per alcune e la contemplazione della natura per altre. Lei sa che
non tutte le persone possono fare «composizioni di luogo» o concentrarsi nella
meditazione, però tutti siamo capaci di amare. Quindi, insiste perché parliamo
a Gesù con la stessa naturalezza con la quale parleremmo a un padre o a uno
sposo o a un amico, raccontandogli le nostre cose, stando in sua compagnia,
lasciandoci guardare da Lui. L’importante è che l’orazione sia autentica e che
non si disinteressi della vita, ma che sbocchi
nell’esercizio dell’amore e nel servizio (cf. F 5).
Di fatto, l’orazione non si limita ai momenti che le religiose trascorrono
insieme nel coro della Chiesa. Lei ha chiaro che «anche tra le pentole si trova
il Signore» e che sarebbe molto spiacevole se lo si potesse trovare solo «in
qualche cantuccio». Quindi chiede alle sorelle di non preoccuparsi se qualche
volta devono tralasciare i tempi di orazione per prendersi cura di qualche
ammalata o fare altri servizi necessari, perché anche in quelle attività stanno
servendo il Signore, giacché le svolgono per amore verso di Lui. Più tardi,
quando si moltiplicano i suoi viaggi e le sue occupazioni, le verrà il pensiero
che si serve meglio il Signore stando lontana da quegli affari, ma sentirà che
Gesù stesso le dice che non si debbono tralasciare, in quanto basta che faccia
tutto con retta intenzione e con distacco, come Lui stesso fece in tutte le sue
attività (cf. R 11).
Amica della cultura e della buona istruzione vuole che le sue monache abbiano
una formazione. È nemica di «devozioni balorde». Vuole che la loro vita
spirituale si costruisca su fondamenta solide. Quindi, chiama i migliori
predicatori che trova, perché tengano nella Chiesa e nel parlatorio sermoni per
le religiose. La priora deve aver cura che la biblioteca conventuale disponga
di buoni libri e che l’orario permetta che le sorelle abbiano tempo per la
lettura spirituale e per la formazione tutti i giorni. Ma l’«istruzione» non è
un fine a sé, bensì un mezzo per meglio conoscere e meglio amare Gesù Cristo.
Teresa sa che può nascere una sottile superbia in coloro che si credono
superiori per il fatto di avere più studi o più conoscenze. Come abbiamo detto
sopra, insiste con le sue monache perché siano semplici nelle relazioni. Non devono
essere ricercate nel parlare né entrare in discussione per questioni di parole
o di concetti. Tra le Carmelitane scalze, la cultura non può entrare in
contraddizione con la semplicità e la naturalezza.
Introduce
nella vita delle monache la novità di dedicare un’ora al mattino e un’altra
alla sera alla convivenza intensa e rilassante. È la «ricreazione», nella quale
si condividono le gioie e le contraddizioni della giornata tra poesie, canzoni
e scherzi, mentre si cuce o si realizzano altre attività che non hanno bisogno
di troppa attenzione. Conserviamo molti dei poemetti composti dalla Santa per
queste ricreazioni: canti per celebrare il Natale, o la Circoncisione, o
l’Epifania, o la
Settimana Santa, o le feste di sant’Andrea, sant’Ilarione,
santa Caterina o in occasione di alcuni eventi comunitari, come l’inizio del
noviziato o la professione delle sorelle; compreso uno per supplicare il
Signore di essere liberata da un attacco di pidocchi.
Le tue mani onnipotenti / ci hanno
dato un bel vestito:
dalle bestie impertinenti / deh!
preservaci, Signor!
Vi sarebbe di tormento / quando entrando in orazione
non aveste a fondamento / una soda
devozione.
Sian però le vostre menti / in Dio
fisse pur allor!
Dalle bestie impertinenti / deh!
preservaci, Signor (P
31).
Nella sua epoca, l’autenticità dell’esperienza religiosa si misurava con la
capacità di rinuncia e con le penitenze. Nella vita dei Santi si leggevano i
loro digiuni e i loro sacrifici. Lei aveva voluto imitarli con conseguenze
fatali per la sua salute. Ora, per l’esperienza personale, scrive che «nella
vita dei Santi ci sono cose da ammirare e cose da imitare». Le loro penitenze
rientrano nella categoria dell’ammirabile, le loro virtù in quella
dell’imitabile. Nel monastero di San Giuseppe si insisterà sulla pratica delle
virtù, sull’identificazione con Cristo e con i suoi sentimenti, sull’unione
amorosa con Lui. L’austerità e l’ascetismo si faranno con moderazione e soavità,
«insistendo di più sulle virtù che sul rigore, perché questo è il nostro stile».
L’austerità della vita non è un fine in se stesso, ma un mezzo per concentrarsi
sull’essenziale, evitando dispersioni.
La gioia delle sorelle sarà la migliore espressione del fatto che le loro
vite siano totalmente incentrate su Cristo, il quale riempie i loro cuori. Solo
l’unione con Lui può trasformarle in quella luce, sale e lievito di cui il
mondo ha bisogno.
L’«estetica» teresiana
A San Giuseppe nasce anche una «estetica» teresiana, una maniera di
guardare al mondo e di rappresentarlo. Santa Teresa proviene dall’Incarnazione,
monastero costruito nella periferia della città con numerose abitazioni intorno
a un chiostro monumentale, con una chiesa in grado di accogliere molti fedeli e
con varie strutture attorno al nucleo centrale per ospitare i cappellani, la
servitù, i pagliai, gli animali da cortile… I monasteri tradizionali, con i
loro solidi edifici, servivano per ricordare al mondo i valori eterni. Se si
trovavano distanti dalle città, invitavano ad abbandonare i beni di questo
mondo per cercare quelli del cielo.
San Giuseppe sorgerà più come una casa in mezzo a un quartiere rumoroso. La
cappella sarà piccola e raccolta, senza campanile, ma con una campanella appesa
al muro, per richiamare alla preghiera. La casa di Teresa ricorda quella della
società del tempo perché Dio «ha messo la sua dimora in mezzo a noi» e rimane
sempre accanto a noi «aiutandoci nell’interiore come nell’esteriore». Lei, che
voleva che le sue monache incontrassero Dio non solo nel tempio, ma anche «tra
le pentole» e nelle altre attività quotidiane, vuole che la popolazione senta
le sue monache vicine, prossime. Per questo, l’architettura conventuale non
differiva molto da quella delle abitazioni circostanti.
La cucina, le celle e gli altri ambienti del monastero saranno austeri e
funzionali: pareti intonacate, pavimenti in piastrelle di argilla, travi in
legno non decorate, una croce nuda nella parete, un appoggio vicino alla
finestra per scrivere, una candela, le cose utili da lavoro (fuso, aghi per
ricamare, ecc.) e un orcio di acqua per lavarsi. In luoghi appositi saranno
collocati alcuni quadri e immagini per mezzo dei quali si cerca di risvegliare
la devozione al di là del valore artistico o economico.
Per produrre frutta e verdura e per garantire il passatempo alle sorelle,
si curerà l’orto, in cui si pianteranno anche fiori lungo il rigagnolo e si
costruiranno alcuni piccoli romitori per il ritiro personale. Tutto è rivolto
alla ricerca della bellezza interiore, l’unica che perdura nel tempo. Tutto
molto semplice, molto raccolto e molto pulito: «Mi pare molto sconveniente
fabbricare grandi case con il denaro dei poveri. La nostra sia piccola e
modesta, perché per tredici poverelle, il più piccolo cantuccio è sufficiente
[…]. Ricordatevi che nel giorno del giudizio dovrà tutto cadere» (CE 2,9).
Sensibilità apostolica
È una delle caratteristiche più sorprendenti di questa monaca contemplativa.
Da buona carmelitana, ha come modello il profeta Elia. L’Ordine del Carmelo
parla sempre del suo «doppio spirito» (quello contemplativo e quello
apostolico), che si manifesta nei suoi due motti, sempre presenti nella
spiritualità dell’Ordine. La dimensione contemplativa trova espressione nel
motto «per la vita di Dio, alla cui presenza io sto» (1Re 17,1; 18,15). La
dimensione apostolica si trova nell’altro motto eliano, tuttora presente sullo
scudo carmelitano: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti» (1Re
19,10;14). Ciascuna carmelitana deve fare un cammino personale per combinare
queste due realtà, in modo che non si rompa l’armonia, che l’orazione sia
apostolica e l’apostolato sia orante.
Santa
Teresa diceva che Marta e Maria devono darsi la mano (cf. 7M 4,12) e che tutte
le raccomandazioni di Gesù ai suoi discepoli si riassumono nel comandamento
dell’amore: «Per noi la volontà di Dio non consiste che in due cose: nell’amore
di Dio e nell’amore del prossimo. Qui devono convergere tutti i nostri sforzi.
E se lo faremo con perfezione, adempiremo la volontà di Dio e gli saremo unite»
(5M 3,7). Le piaceva ripetere quanto diceva san Giovanni: «Chi non ama il
proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Dal
suo innamoramento per Cristo e dalla sua relazione personale con Lui
scaturirono le sue bramosie evangelizzatrici e il suo amore appassionato per la Chiesa e per tutti gli
uomini, specialmente per i peccatori e per quelli che più soffrono (poveri,
infermi, ecc.). Di fatto, insisterà con le sue monache affinché la loro
principale occupazione sia pregare per la Chiesa e per le sue necessità, avendo presenti
tutti gli uomini davanti al trono di Dio, giorno e notte. Il suo profondo amore
per la Chiesa
la porta a identificarsi con la sua causa e a dedicare tutte le sue energie a
tale servizio, senza perdere tempo in cose secondarie: «Tutto il mondo è in fiamme, vogliono condannare ancora Gesù Cristo, si
adoperano per distruggere la sua Chiesa […]. Sorelle mie, non è questo il tempo
da sciupare in domande di cose di poca importanza» (CE 1,5).
Confessa che le divisioni religiose del momento sono state il motore che
l’hanno spinta a fondare: «Venuta a conoscenza dei danni di questi luterani e
dell’incremento che andava prendendo quella setta malaugurata, mi lamentai con
il Signore, supplicandolo di por rimedio a tanto male […]. E avendo il Signore
tanti nemici e così pochi amici, che questi almeno gli siano devoti; e così
venni nella determinazione di fare il poco che dipendeva da me; osservare i
consigli evangelici con ogni possibile perfezione, e procurare che facessero
altrettanto le poche religiose di questa casa […]. Tutte occupate nell’orazione
per i difensori della Chiesa, per i predicatori e per i dotti […]. Per questo
il Signore vi ha raccolte qui; questa è la vostra vocazione, queste devono essere
le vostre incombenze» (CE 1,2-5).
La sua passione per le anime rimane ampiamente documentata nei suoi scritti
e nelle testimonianze dei suoi contemporanei, come in questa di Isabella di san
Domenico: «Diceva spesso che se fosse stato lecito alle donne di poter andare
ad insegnare la fede cristiana, lei sarebbe andata ad insegnarla nella terra di
eretici, anche se al costo di mille vite». La presenza dei fratelli di Teresa
in America la tenne ampiamente informata dei progressi e degli abusi della
Conquista. Fu sempre preoccupata per la sorte degli indigeni, arrivando a
scrivere «che non mi costano poche lacrime questi indios».
Speciali bramosie missionarie si svegliarono in lei e nelle sue compagne a
causa della visita al parlatorio di San Giuseppe di un amico del vescovo
Bartolomeo de Las Casas, che con un memoriale era diretto a difendere la causa
degli indios davanti al re e alla Corte: «venne a trovarmi un religioso
francescano, gran servo di Dio, chiamato fra Alfonso Maldonado, che aveva i
miei stessi desideri per la salvezza delle anime, ma del quale io avevo grande
invidia perché li poteva mettere in pratica. Era tornato da poco dalle Indie, e
cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che laggiù si perdevano per
mancanza d’istruzione religiosa. […] mi ritirai tutta in lacrime in un
romitorio, e là innalzando la mia voce al Signore, lo supplicai di fornirmi di
qualche mezzo per contribuire a guadagnarne qualcuna al suo servizio […].
Invidiavo molto coloro che per amor di Dio potevano darsi all’apostolato» (F 1,7).
Con le sue bramosie evangelizzatrici aumenta anche la sua sensibilità verso
i più deboli e la sua voglia di giustizia per i popoli evangelizzati. Nell’anno
in cui fu fondato San Giuseppe, scrive una seconda Relazione spirituale per padre Pietro Ibáñez, nella quale rende
conto della sua orazione e della sua evoluzione in questo campo: «Dei poveri mi
sembra di avere compassione più ora che una volta. Ne ho tanta pietà e tanta
brama di soccorrerli che, ascoltando il mio cuore, darei loro anche l’abito che
porto. Non solo non sento ripugnanza di parlare con loro, ma neppure di
prenderli per mano. E riconosco che questo è un puro dono di Dio, perché, se
per amor suo facevo elemosina anche prima, tuttavia compassione naturale non ne
sentivo. Insomma, su questo punto mi sento molto migliorata» (R 2,3). Più
avanti scriverà una lettera a suo fratello Lorenzo condividendo le sue
sofferenze per alcune notizie che riceve sulle conquiste americane: «ciò che mi
affligge maggiormente è vedere perdersi tante anime, e quei suoi indiani non mi
costano poco. Il Signore li illumini, perché sia qui, sia lì, ci sono grandi
sventure. Siccome vado in tanti luoghi e mi parlano molte persone, spesso non
so che dire, se non che siamo peggiori delle bestie» (Lett. 2,13 a don Lorenzo de
Cepeda, del 17/1/1570).
Donna «inquieta e vagabonda»
Teresa godeva della pace del suo conventino di San Giuseppe: «Era la mia
gioia passarmela con anime così sante e pure, la cui unica brama era di servire
e lodare il Signore» (F 1,2). Molte giovani le chiedevano di potervi entrare, ma lei
non era disposta ad accettare più delle 13 che già vivevano lì, perché sapeva per esperienza i pericoli dei
monasteri numerosi. Voleva fare qualcosa per queste donne che avevano
intenzione di unirsi a lei, anche se non sapeva che cosa, né trovava un luogo
appropriato dove mandarle. Inoltre, cresceva in lei il desiderio di fare
qualcosa per gli altri, benché fosse consapevole che alle donne della sua epoca
era proibito realizzare qualsiasi apostolato: «Considerando la grande
generosità di quelle anime e il coraggio che Dio loro concedeva per soffrire e
impiegarsi nel suo servizio, mi veniva spesso da pensare che nel ricolmarle di
tante ricchezze il Signore doveva avere
qualche grande finalità. […]. Tuttavia, più il tempo passava e più in me
crescevano i desideri di contribuire al bene di qualche anima, parendomi, molte
volte, di essere come una persona in possesso di un grande tesoro, desiderosa
di farne parte a tutti, ma impotente a distribuirlo perché con le mani legate» (F 1,6).
Sa che la sua proposta di vita è buona per la Chiesa, si sente in
possesso di un grande tesoro che vorrebbe condividere con tutto il mondo, ma è
anche cosciente che la sua condizione di donna le sbarrava le porte a qualsiasi
possibilità di mettere in pratica i suoi grandi desideri. Con una espressione
altamente significativa dice che è come
se le legassero le mani. Come già abbiamo visto, quella era la triste
situazione delle donne nella società della sua epoca e le cose non erano molto
diverse nel seno della Chiesa. L’unica vocazione femminile che si accettava era
quella di monaca di clausura e alle consacrate non si permetteva di realizzare
nessuna opera a favore dei loro simili.
Non trovando comprensione tra gli uomini, rivolge la sua preghiera al
cielo: «lo supplicai di fornirmi di qualche mezzo per contribuire a guadagnarne
qualcuna al suo servizio […]. Invidiavo molto coloro che per amor di Dio
potevano darsi all’apostolato […] e mi accade tuttora, leggendo la vita dei
santi, di sentire maggior devozione, invidia e tenerezza per le conversioni da
essi fatte, che non per i tormenti a cui sono andati soggetti» (F 1,7). Lei
desiderava lavorare per far conoscere Cristo, annunciare il suo vangelo,
diffondere il suo amore nei cuori e provava invidia dei missionari, dei
sacerdoti, di quelli che potevano annunciare pubblicamente la fede.
Da allora, «Stando dunque in questa grandissima pena, una notte, mentre ero
in orazione, mi apparve nostro Signore nella maniera che suole, e mostrandomi
grande amore mi disse, quasi a consolarmi: “Aspetta un poco, o figlia, e vedrai
grandi cose”» (F 1,8). Teresa commenta che queste parole le si erano impresse
nel cuore e che non le poteva distogliere da sé, anche se non riusciva a
pensare cosa potevano significare. Sapeva che si sarebbero compiute, ma non
poteva indovinare la maniera. L’enigma fu chiarito alcuni mesi più tardi.
Nel frattempo, il Concilio di Trento, nelle sue ultime sessioni, aveva
redatto i decreti per la riforma del clero e dei religiosi. Nel 1567, Pio V,
appena eletto Papa, esortava perché si mettessero in pratica. Quello stesso
anno arrivava dall’Italia, in visita pastorale, il generale dell’Ordine, padre
Giovan Battista Rossi (o Rubeo, nella versione latinizzata del cognome che usa
sempre Teresa), «qualcosa che prima non era successo perché il generale sta
sempre a Roma», racconta lei.
Anche se lei ricevette la notizia con paura, perché il generale poteva
disfare la sua opera, trovò in lui comprensione
e appoggio. Inoltre, le diede il permesso per fondare «tanti monasteri
quanti capelli ha in testa». Così iniziava un’opera erculea che la portò a
fondare 17 monasteri di monache e 15 conventi di frati in 15 anni.
Per comprendere ciò che questo significò, ricordiamo che le vie di
comunicazione continuavano ad essere le antiche carreggiate romane, molto danneggiate dopo 1500 anni di uso, senza
riparazioni né manutenzione. Le strade erano piste polverose in estate, che si
trasformavano in pantani impraticabili durante l’inverno. I ponti per
attraversare i fiumi erano quasi inesistenti, per cui si attraversavano in
chiatte (che non erano neppure tante). Le locande erano poche di numero e tutti
i racconti dell’epoca sono concordi nel sottolineare la loro scomodità, in
quanto si trattava di luoghi sporchi, poco arieggiati, senza letti, pieni di
cimici e pulci tra la paglia. Quindi, Teresa e i suoi accompagnatori dormirono di solito sul pavimento delle chiese
lungo la strada e fecero solo uso delle locande quando non rimaneva un’altra
possibilità. Inoltre, non avevano neppure servizio di mensa (diversamente da
quello che appare nei film pseudo-storici che ricostruiscono l’epoca).
La stessa Santa racconta le difficoltà per trovare provviste lungo le
strade. Nel viaggio da Beas a Siviglia, per esempio, non trovarono nessun
alimento da comprare presso i locandieri né presso i contadini e nell’ultimo
viaggio da Burgos ad Alba de Tormes riuscirono ad ottenere solo alcuni fichi
secchi. Maria di san Giuseppe lasciò testimonianza
scritta sull’argomento: «Molti giorni potemmo solo ottenere alcune fave,
o un poco di pane, o alcune ciliegie, o una cosa così; e quando trovavamo un
uovo per la nostra Madre, era gran cosa».
Ma la difficoltà principale la incontrò, come per scrivere, nella sua
condizione di donna. Fino ad allora, tutti i monasteri e gli Ordini religiosi
erano stati fondati da uomini: san Benedetto da Norcia fondò le benedettine, san
Domenico di Guzmán le domenicane, san Francesco d’Assisi le clarisse. Anche nei
casi di donne che possedevano i beni necessari per erigere un monastero o un
ospedale in cui ritirarsi al servizio dei malati (come le regine sant’Elisabetta
del Portogallo e sant’Elisabetta di Ungheria dopo essere rimaste vedove), incaricarono
uomini che sbrigassero le pratiche necessarie. Teresa invece tratta
direttamente con le autorità, stabilisce accordi con i benefattori, acquista
case, dirige opere… il che provoca la reazione di quanti non erano disposti a
permettere che una donna agisse indipendentemente dal criterio degli uomini. Lei
stessa lo confessa riflettendo sulle opposizioni che incontrava: «[tutti
rimasero] stupiti che una donnicciola avesse osato erigere un monastero contro
la loro volontà» (F 15,11).
La maggior parte di coloro che trattavano personalmente con lei finivano
per diventarne amici e appoggiare la sua opera. Ma lei era cosciente che molte
persone influenti non accettavano che una monaca uscisse dal monastero,
fondasse e scrivesse con libertà, essendo questa vietata in quella società alle
donne, per cui non smetterà mai di andare alla ricerca di appoggi: «Mi fa piacere
sapere che lei abbia avuto l’occasione di parlare dei miei viaggi. Certo, essi
sono una delle cose che più mi stancano nella vita, e che mi procurano maggior
travaglio, soprattutto quando vedo che ciò viene giudicato male [...]. Quando
vedo come si serve il Signore in queste case, tutto ciò che soffro mi sembra
poco» (Lett. 62,7 a
don Teutonio di Braganza, del 2/01/1575).
Siccome quasi tutti insistevano che le donne dovessero sottostare agli
uomini, ad un certo punto le sorsero dei dubbi sulla sua opera. Specialmente
perché i suoi superiori (confessori, provinciali, vescovi) sono i
rappresentanti di Dio e i più contrari alla sua opera. Quasi tutti sanno che il
nunzio la qualificò «donna inquieta e vagabonda, disobbediente e contumace,
che, sotto pretesto di devozione, inventa dottrine erronee, va in giro fuori
clausura contro le prescrizioni del concilio di Trento e dei superiori,
pretende di insegnare come un dottore mentre san Paolo ha detto che le donne
nella Chiesa se ne stiano in silenzio». Ad un certo punto, anche il papa san
Pio V scrisse una lettera al vescovo di Avila in cui prescriveva che non
permettesse alla madre Teresa di abbandonare il monastero per fondarne altri né
per visitare quelli già fondati.
Per una donna onesta e sempre in cerca della verità, la domanda sorse
spontanea: Si autoingannò per tutto quel tempo? Si ingannarono pure i tanti
consiglieri ai quali aveva chiesto lumi in quegli anni? Fu Cristo a consolarla,
come ci confessa: «mentre pensavo se non avessero ragione di vedermi di
malocchio uscir di clausura per fondare monasteri, e se non fosse meglio darmi
con maggior impegno all’orazione, intesi queste parole: “Finché
si è sulla terra, il profitto non sta nel procurare di maggiormente godermi, ma
di fare la mia volontà”. Mi era parso che per me la volontà di Dio fosse in
quello che dice san Paolo circa il ritiro in cui devono vivere le donne, come
mi era stato detto poco prima e io stessa avevo altre volte udito. Ma Egli mi
disse: “Fa’ loro sapere che bisogna guardare la Scrittura non in una
parte sola, ma in tutto il suo insieme. O che forse mi potranno legar le mani?”» (R 19). In questo
modo, con l’aiuto del Signore e con molta immaginazione e tenacia, perseverò
scansando tutti gli ostacoli per realizzare la sua opera.
La conclusione della sua avventura
Perfino nel morire fu originale. Morì il 4 ottobre del 1582, a 67 anni di
età. I testimoni all’atto raccolgono due sue espressioni particolarmente
significative. Da una parte, affermò: «Muoio, infine, figlia della Chiesa», che
è una sorta di grido rivendicativo. Anche se è sempre vissuta sotto sospetto e
molte volte sotto minaccia, i suoi nemici non riuscirono ad espellerla dalla
comunità cristiana. Dall’altra, rivolgendosi a Dio, esclamò prima di morire: «È
tempo di camminare». Molti la volevano rinchiusa e inattiva, mentre aveva
percorso itinerari al servizio di Cristo e dei fratelli e pensava di continuare
a farlo dopo la sua morte.
Quel giorno si riformò il calendario. Fino ad allora si usava quello
«Giuliano», istituito da Giulio Cesare nell’anno 46 a.C., che constava di 12
mesi di 30 giorni ognuno, con cinque giorni in meno all’anno e uno bisestile
ogni quattro anni. L’imperatore Aureliano lo ritoccò nell’anno 270 d.C., ma
aveva l’inconveniente che si perdevano alcune ore ogni anno. Il Papa Gregorio
XIII ordinò che si iniziasse a usare un nuovo modo di contare il tempo: il
calendario «Gregoriano», tutt’oggi vigente. Per regolare lo sfasamento, furono
soppressi 11 giorni del calendario, trasferendo così il «dies natalis» di santa Teresa dalla notte del 4 ottobre al 15
ottobre del 1582.
Abbiamo detto che le sue opere furono rapidamente pubblicate e tradotte in
altre lingue. Anche le sue figlie si propagarono per tutto il territorio
spagnolo fino ad arrivare in Portogallo, Francia, Paesi Bassi, Inghilterra… e
oggi sono sparse per il mondo intero.
Facciamo nostre le parole di fra Luis de León incluse nel prologo
dell’edizione principe delle opere di santa Teresa (anno 1589): «Io non
conobbi, né vidi mai la madre Teresa di Gesù mentre era su questa terra, ma ora
che vive nel cielo la conosco e la vedo quasi sempre nelle due immagini vive
che ci lasciò di sé, che sono le sue figlie e i suoi libri». Oggi, come allora,
chi vuole conoscere il vero spirito di questa donna ha due vie: la lettura
delle sue opere e il rapporto con le sue figlie.
6. L’esperienza orante di santa Teresa di Gesù
Santa Teresa è conosciuta innanzitutto per i suoi insegnamenti
sull’orazione. La sua dottrina è così profonda e convincente per averla vissuta
prima di scriverla. Di fatto, è solita ripetere che scrive solo quello che ha
sperimentato. In questo senso, tutti i suoi libri sono autobiografici. In essi
espone il suo cammino di orazione e lo propone a coloro i quali desiderano
ascoltarla.
Infanzia e giovinezza
Teresa stessa ricorda che sua madre prestava molta cura nell’insegnare la
preghiera ai suoi figli e nel trasmettere loro la sua devozione alla Vergine e
ad alcuni Santi (V 1,1). Da parte sua, con un fratello coetaneo, Teresa passava
molto tempo a leggere vite dei Santi, che voleva imitare. Già all’età di «sei o
sette anni» le piaceva meditare sul fatto che la gloria del cielo e le pene
dell’inferno sono per sempre (V 1,4). Con suo fratello giocava a fare gli
eremiti (V 1,5) e con altre bambine della sua età a fare le monache. Racconta
che «cercavo la solitudine per recitare le mie molte devozioni, che erano
tante, e specialmente il rosario» (V 1,6). Per questo, quando a tredici anni
restò orfana, ricorse spontaneamente a Maria, chiedendole che fosse sua Madre
(V 1,7).
A sedici anni la misero in un educandato, dove le ragazze della sua
condizione sociale venivano formate sino al momento del matrimonio (V 2,6).
Teresa vi conduce una vita di pietà accompagnata dalla recita di molte
preghiere vocali (V 3,2). L’abbandona a causa di una malattia ma, lungo il
tragitto verso la casa di sua sorella, dove va a curarsi, sosta presso lo zio
Pedro. Costui, che dedica il suo tempo alla lettura di buoni libri religiosi e,
più tardi, si farà monaco, regala a sua nipote le Lettere di san Girolamo, che
parlano molto dell’orazione (la 3a parte si intitola Sullo stato
eremitico o vita contemplativa). La sua compagnia induce Teresa a
ricordare le meditazioni dell’infanzia su quanto rapidamente tutto passa e che
il cielo e l’inferno sono per sempre. Così decide di farsi monaca (V 3,5).
La scoperta della meditazione
Durante il noviziato nel monastero dell’Incarnazione di Avila trova un buon
clima orante. Di fatto, la Regola
del Carmelo invita a «rimanere in orazione notte e giorno, meditando la Parola di Dio e vegliando
in orazione» (Regola 8). Le Costituzioni del monastero dicevano:
«Le novizie lavorino diligentemente nello studiare e imparare a cantare i Salmi
e l’Ufficio divino e siano istruite in tutte le rubriche» (BMC 9,494). Sebbene
lei non sappia il latino, la recita dei Salmi e dell’Ufficio divino le occuperà
molte ore della sua vita a partire da quel momento. Forse è di allora il suo
primo incontro con i vangeli tradotti in spagnolo, poiché affermerà: «Sono
stata sempre affezionata e mi hanno raccolto più le parole dei vangeli che gli
altri libri» (C 21,4).
Tre anni dopo abbandona temporaneamente il monastero, a causa di un’altra
malattia. Di nuovo sulla strada di casa di sua sorella, suo zio torna a
fornirle buoni libri. In primo luogo, il Commento al libro di Giobbe, di
san Gregorio Magno, nel quale trova un buon modello di orazione biblica: Giobbe
parla con Dio, nel bel mezzo della sua malattia, esponendogli le sue sofferenze
e rivolgendosi a Lui con le sue proprie parole. Anche il Terzo Abecedario, di
Francisco de Osuna, sarà fondamentale nella sua vita, perché le aprirà la
strada dell’orazione mentale. L’affascina tutto ciò che vi trova, fin dalla
prima pagina: «L’amicizia e la comunicazione con Dio è possibile in questa
vita, più stretta e più sicura che sia stata mai tra fratelli o tra madre e
figlio». Commenta che, fino a quel momento, «non sapevo come procedere
nell’orazione né come raccogliermi. Perciò, mi rallegrai molto con quel libro e
decisi di proseguire la strada con tutte le mie forze» (V 4,7).
Comincia a praticare quello che in seguito chiamerà «primo grado
dell’orazione», che consiste nel meditare sulla vita di Cristo e nella
conoscenza di sé. La aiutano la lettura dei buoni libri, il fissare lo sguardo
su immagini del Signore e la contemplazione della natura, nella quale scorge
un’impronta del Creatore. Nei tre anni che rimane nell’infermeria del
monastero, dedica molto tempo all’orazione e a insegnare a pregare alle altre,
le quali si stupiscono della sua pazienza e della sua allegria (V 6,4). Suo
padre stesso ne diviene discepolo.
L’orazione tentata
Verso i 27 anni si ristabilisce dal suo indebolimento (V 6,8). La sua
guarigione miracolosa, la profondità delle sue parole e la sua simpatia
naturale fanno sì che molti si rechino a parlare con lei nel parlatorio del
monastero e a interpellarla sui propri affari. Le conversazioni si prolungano,
deviando su argomenti insignificanti, trasformandosi in veri e propri
passatempi. Ma poiché questo ha un ritorno in elemosine per il monastero, tanto
bisognoso, a tutti sembra buona cosa. Qui il demonio ha introdotto la più
grande tentazione di tutta la sua vita, travestita di umiltà. Teresa si sente
indegna di avvicinarsi all’orazione, convinta che solo le persone perfette sono
degne di trattare con Dio e vedendo se stessa così imperfetta: «cominciai ad
aver timore di fare orazione mentale» (V 7,1). Lei vuole sinceramente chiarire
i suoi dubbi, ma non trova con chi. L’occasione arriva con la malattia e la
morte di suo padre. Mentre lo assiste, ha modo di parlare con il suo
confessore, il quale la incoraggia a comunicarsi spesso e a ritrovare
l’orazione (V 7,17).
Le viene proposto di praticare ogni giorno, almeno, un’ora di orazione
silenziosa. Di ritorno al monastero, la sua vita quotidiana si divide tra le
preghiere comunitarie, la lettura spirituale, l’orazione personale,
l’assistenza alle ammalate e l’attenzione nel parlatorio a quanti la visitano.
Molti la considerano una religiosa esemplare. Ma lei non è contenta, perché si
sente combattuta: «Da una parte mi chiamava Dio e dall’altra io seguivo il
mondo. Tutte le cose di Dio mi davano tanta gioia, ma quelle del mondo mi
tenevano legata. Mi sembrava che volessi conciliare questi due nemici» (V
7,17).
Quando scrive i suoi ricordi, ormai al vertice della sua vita spirituale,
considera tutto il tempo perso come un tradimento all’amore di Dio. Ricevendo
tante grazie da Lui, si sente maggiormente obbligata a vivere nella sua
amicizia, abbandonandosi senza riserve. Sentendosi così imperfetta, la umiliano
le grazie che il Signore le concede: «Castigavate i miei peccati con abbondanti
doni» (V 7,19). In questa tensione rimane per 10 anni, finché Dio la vince
completamente.
La conversione
Davanti a un’immagine di Cristo molto piagato, decide di abbandonarsi
totalmente nelle sue mani, facendo sempre e in tutto la volontà di Dio (V 9,1).
Esclamerà: «Mi sono stancata prima io ad offenderlo che non Lui a perdonarmi»
(V 19,15). Teresa ha 39 anni e si prepara a iniziare una nuova tappa della sua
esistenza, nella quale la priorità sarà coltivare la vita interiore. È finito
il tempo di costruire la propria vita su ciò che gli altri possano pensare di
lei, sull’affetto nei confronti delle creature, sulle occupazioni e sulle
attività esteriori (per quanto molto buone e religiose siano). Da quel momento,
l’orazione sarà la colonna portante della sua vita.
È importante avere presente che, per Teresa e i suoi contemporanei,
l’orazione non è soltanto un’attività dell’anima, ma un modo di essere, una
scelta di vita che comporta introspezione, ricerca di una relazione personale
con Dio e un modo di collocarsi davanti al mondo, vivendo alla luce del
Vangelo. Oggi viene chiamata: “spiritualità”. Lo vediamo in sant’Ignazio: «Per Esercizi
spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, di meditare, di
pregare vocalmente o mentalmente e di altre attività […] per rimuovere da sé
tutte le affezioni smodate e cercare la volontà divina» (Prima annotazione
degli Esercizi). Questa è la “orazione” nel secolo XVI.
Questo argomento è così importante che, quando santa Teresa racconta la sua
storia, si sente costretta a fare una lunga digressione di 12 capitoli (V
11-22), per introdurre alcune riflessioni sull’orazione che ci aiutino a
comprendere ciò che viene dopo. In special modo, sottolinea la dimensione
relazionale dell’orazione, che non consiste nel ripetere formule. È una
relazione di amicizia con Dio, che sgorga dal saperci amati e accettati da Lui
e che comporta una vera trasformazione della propria esistenza, avendo Cristo
come modello: «A mio parere, l’orazione mentale non è altro che trattare di
amicizia, stando spesso a trattare in solitudine con Chi sappiamo che ci ama»
(V 8,5). Nel riprendere il racconto della sua vita, dirà: «Da qui in avanti è
un altro libro nuovo, dico un’altra vita nuova» (V 23,1).
L’orazione affettiva
Da quando inizia la pratica dell’orazione, Teresa incomincia col meditare
qualche pagina del Vangelo o di un altro libro spirituale. Nella meditazione si
«rappresenta» una scena della vita di Cristo e riflette sui suoi insegnamenti:
«Avevo questa modalità di orazione: cercavo di rappresentare Cristo dentro di
me […] e stavo con Lui finché i miei pensieri me lo permettevano» (V 8,4).
Ad un certo punto, comincia a percepire la presenza misteriosa, ma reale,
del Signore al suo fianco, senza che lei faccia nulla per provocarla. È
l’ingresso nell’orazione mistica: «Mi sentivo invadere all’improvviso da un
sentimento della presenza di Dio, da non potere dubitare in alcun modo che era
Lui dentro di me ed io tutta avvolta in Lui» (V 10,1). Questo le produce
stupore e gioia. I suoi confessori credono che il diavolo la inganni, ma lei
non può dubitare che è Dio che la visita, sentendosi ogni giorno più salda
nella fede e nella speranza, più generosa nella pratica della carità e più
staccata da tutto.
Nella sua orazione, i pensieri e le meditazioni occuperanno ogni volta meno
tempo. Al contrario, ciò che prevarrà sarà l’amore e il desiderio di amare. Si
sente in presenza di Cristo, al quale guarda amorevolmente e dal quale si
lascia guardare, al quale parla, senza badare alle parole da usare, come con un
amico, un fratello, uno sposo. Questo stesso atteggiamento raccomanda ai suoi
lettori: «Non vi chiedo che pensiate, né che sappiate molti concetti, né che
facciate grandi e delicate considerazioni con l’intelletto. Vi chiedo solo che
lo guardiate […]. Se sei nella gioia, contemplalo risorto […]. Se sei triste,
contemplalo sulla strada dell’orto […] o legato alla colonna […] o carico della
croce […]. E Lui ti guarderà con occhi così belli e dimenticherà i suoi dolori
per consolare i tuoi […]. E parla spesso con Lui. Se parli con le altre
persone, perché ti dovranno mancare le parole per parlare con Lui?» (C 26,
3-9). Effettivamente, Teresa ha scoperto che «qui l’essenziale non consiste nel
molto pensare, ma nel molto amare. Così, quello che più vi eccita ad amare,
quello fate» (4M 1,7).
La pienezza contemplativa
Da quando inizia a praticare questa orazione affettiva (lei la chiama orazione
di raccoglimento), si moltiplicano le grazie mistiche: parole interiori,
visioni, estasi, ferite d’amore nel cuore. A differenza della meditazione, che
è discorsiva e si realizza con lo sforzo dell’intelletto, questa orazione è
intuitiva e si riceve come un dono gratuito. All’inizio Teresa si spaventa. Non
trova le parole adeguate per spiegare quello che le accade. In cerca di luce
per comprenderlo, incomincia a metterlo per iscritto. I suoi primi consiglieri
non la comprendono. Le chiedono «spiegazioni» comprensibili ma Teresa può
offrire loro solo una «testimonianza» di come tale incontro la trasformi.
Sa che le sue esperienze non sono il risultato del suo operare, ma che
derivano da Dio, per gli effetti che producono: vera umiltà, libertà interiore,
distacco da tutto il creato, forza nella sofferenza, amore disinteressato. San
Francesco Borgia, san Pietro di Alcántara e san Giovanni d’Avila le confermano
che provengono da Dio. Con tali buoni sostegni, scompaiono le sue paure e tutto
si trasforma in orazione: «cessarono i miei mali e il Signore mi diede forza
per liberarmi da essi […]. Tutto mi serviva per conoscere meglio Dio ed amarlo
e vedere ciò che gli dovevo e dispiacermi di quella che ero stata» (V 21,10).
Si sente completamente identificata con Cristo e i suoi sentimenti. Dalla
sua unione con Lui scaturisce il suo amore appassionato per la Chiesa e la forza
necessaria per lavorare per la causa di Cristo senza fare caso alle opinioni
contrarie. Mentre raggiunge le più alte vette della mistica, diviene «cavaliere
errante» di Dio, fondatrice di monasteri, maestra di orazione e scrittrice di
libri di spiritualità. In lei, Marta e Maria camminano indissolubilmente
insieme, poiché «per questo motivo il Signore concede tante grazie in questo
mondo» (7M 4,4).
Voglia il Signore che, nel seguire l’esempio di santa Teresa, la nostra
orazione ci stimoli ad abbandonarci completamente al servizio di Cristo e a
lasciarlo agire in noi.
7. Insegnamenti sull’orazione
Santa Teresa di Gesù è maestra di orazione nella Chiesa. I suoi scritti
sono serviti da stimolo e alimento per la vita spirituale di varie generazioni
cristiane. Come già abbiamo detto, quando narra la storia della sua vita, ad un
certo punto deve interromperla e introdurre un trattatello di orazione, perché
altrimenti non si capirebbe quello che viene di seguito. Prendendo insegnamenti
da quelle pagine e da altri suoi scritti, qui offro una lettera che santa
Teresa non ha scritto, ma che è composta a cominciare dai suoi testi, per cui
la possiamo perfettamente leggere come rivolta da lei ad ognuno di noi, con il
suo stile diretto e interrogante. Incomincio come fa lei nel suo epistolario:
«Gesù. Lo Spirito Santo sia con vostra grazia».
La necessità dell’orazione
Trovandomi in questo Colombaio della Vergine, ho saputo del suo interesse
per le cose dello spirito, di ciò ne ho avuta molta gioia. E poiché lei mi ha
insistito così tanto perché le scriva qualcosa di ciò che comprendo su
questioni di orazione, metto qui di seguito alcune delle cose che ho scritto
altrove, con la fiducia che chi lo legga ne tragga profitto per amare un poco
di più Nostro Signore, al quale sia la gloria per i secoli. Amen.
Dunque, parlando di quelli che cominciano ad essere servi dell’amore (non
si può dire diversamente il determinarsi a seguire Chi tanto ci ha amati
attraverso il cammino dell’orazione) è una dignità così grande, che mi diletto
a pensare che possiamo avere un rapporto intimo con Dio, il quale si umilia
volentieri a trattare con i suoi servi. Noto bene che non c’è qualcosa con cui
si possa paragonare un tal gran bene sulla terra, poiché consiste nel trattare
nientemeno che con Dio, il quale vuole comunicarsi in questo esilio con le sue
creature per concedere loro grandi grazie. Se facciamo quello che possiamo nel
disporci per raccogliere i beni che Lui vuole regalarci nell’orazione, sua
Maestà ci aprirà i tesori del suo cuore, perché Lui non si nega a nessuno che
lo cerchi con cuore sincero.
Le dirò che l’orazione mi sembra tanto necessaria, che penso che chi non la
fa è come un corpo invalido, che sebbene abbia piedi e mani, non li può
comandare. E così sono le nostre anime, create da Dio con grandi possibilità e
doni, che si scoprono e si mettono in pratica soltanto nell’incontro amoroso
con Colui che le ha create con infinita misericordia. Prendo in considerazione
che la nostra anima sia come un castello, tutto di diamante o di tersissimo
cristallo nel quale ci sono molte stanze, così come nel cielo ci sono molte
dimore. Nel centro e in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, che è dove
accadono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima. Non trovo cosa
migliore con cui paragonare la grande bellezza dell’anima e le sue grandi
capacità. Basti pensare che sua Maestà dice che ci ha fatto a sua immagine e
somiglianza, per supporre qualcosa della nostra ricchezza interiore. A quanto
posso capire, l’unica porta per entrare in questo castello è l’orazione.
Vedo la mia anima così progredita e ricca in virtù da quando faccio
orazione, che è come se mi coccolassero con numerosi gioielli e cibi
succulenti. Penso che dobbiamo essere molto sciocchi se non apriamo i nostri
cuori a questo grande Signore perché Lui ci riempie, perché è come se stessimo accanto
alla fonte e, per non fare lo sforzo di portarci l’acqua in bocca, morissimo di
sete. Quindi, cosa non darà ai suoi amici chi è così amante del dare e può dare
quanto vuole? Lui, che ha dato la sua vita per noi, per forza deve continuare a
darci tutto quello di cui abbiamo bisogno per crescere nel suo amore, se glielo
chiediamo con fiducia. Nel nome di Nostro Signore prego a chi non fa orazione
di non privarsi di tanto bene come sua Maestà vuole donarci in essa.
Allo stesso tempo, devo dirle che quando non facevo orazione, non vivevo,
ma combattevo con un’ombra di morte. Ora mi fa paura come ho potuto chiamare
vita quel vivere senza di essa. Dio mi perdonerà perché, a causa della mia
ignoranza, non sapevo apprezzare tal gran bene. O forse è stato l’orgoglio, che
ci fa credere che bastiamo a noi stessi e che sappiamo tutto quello di cui
abbiamo bisogno di sapere e che non necessitiamo di un Salvatore, alla fin
fine, perché non lo cerchiamo.
Posso dire soltanto ciò che so per esperienza, e cioè che, malgrado i
peccati che faccia chi ha cominciato l’orazione, non la lasci, poiché è il
mezzo per poterci salvare e senza di essa sarà molto difficoltoso. E chi non
l’ha incominciata, per amor di Dio lo scongiuro che non si privi di tanto bene.
Qui non c’è da temere, ma da desiderare, che nessuno ha preso Dio per Amico che
non fosse ricambiato da Lui. Ma oso dire: Dio è colui che ci ha amato per
primo, e ci cerca e ci chiama a squarciagola, e sta desiderando di manifestarsi
a noi… e ci chiede solo che ci disponiamo nell’orazione per poterci coccolare.
Che cos’è l’orazione
In quanto a saper dire che cos’è l’orazione, non è altro, a mio parere, se
non trattare di amicizia, stando frequentemente in solitudine a trattare con Chi
sappiamo che ci ama. Quando l’anima prega, intrattiene amorevole conversazione
nientemeno che con Dio, per cui è bene che avverta o abbia molto in
considerazione con chi sta e chi è lei e cos’è quello che dice, perché se non è
così, io non la chiamo orazione, per quanto muova molto le labbra. Non è
sufficiente ripetere formule imparate a memoria, come possono fare quegli
uccelli che ripetono quello che ascoltano, ma senza capire ciò che dicono. Non
c’è bisogno di parole ricercate né di eleganti ragionamenti, ma parlare al
cuore del suo Sposo con umiltà e sincerità.
Non pensi che le devono mancare le parole per parlare con Gesù. Almeno, io
non lo penserò, perché basta trattarlo come Amico, Compagno e Fratello,
valoroso Capitano, sempre vicino ai suoi in battaglia. Il mio Dio non è per
niente permaloso, né guarda le minuziosità. Molte volte sua Maestà apprezza più
l’umiltà di una povera contadinella che se sapesse di più, di più direbbe, dei
più eleganti ragionamenti. Non sono così importanti le cose che gli diciamo
come il rendersi conto che stiamo trattando con Dio stesso, che ci accoglie in
sua compagnia e ci fa membri della sua famiglia. Nella nostra relazione con
Lui, l’essenziale non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare. Così, ciò
che più vi stimolerà ad amare, quello fate.
Certo, l’anima non ha bisogno di condizioni speciali per trattare con Dio
nell’orazione, né di forze corporali; dunque, chi non può gettare qualche
pagliuzza sul fuoco quando vede che si sta spegnendo? Non penso che sia
maggiore lo sforzo di starsene in affettuosa compagnia con Chi ha dato tante
dimostrazioni d’amore. Lui ci accoglie, nonostante la nostra bassa condizione,
a patto che in quel momento gli vogliamo dare per intero il cuore. E, poiché
sopporta tutto e lo sopporterà per trovare un’anima che voglia starsene con
Lui, e trattarlo con amore, sia quella la nostra. È vero che, perché sia vero
l’amore, si devono accordare le condizioni e gli amanti devono essere simili.
La condizione del Signore già sapete che non può fallire, perché ci ama come
Dio. La nostra è quella di essere vili e miserabili.
Per quanto ritengo, non posso capire che un Dio così grande venga a
trattare con alcuni vermetti maleodoranti. Mi fa paura l’umiltà di questo
grande Imperatore, che ama una come me e mi accoglie nella sua compagnia,
considerandomi parte della sua famiglia. Signore mio e Dio mio, quanto sono
immense le vostre grandezze!, e camminiamo qui come dei pastorelli stupidi, che
ci sembra di capire qualcosa di Voi, e deve essere tanto quanto un nonnulla. Se
mi spaventa contemplare la vostra maestà, mi spaventa di più, Signore mio,
contemplare la vostra umiltà e il vostro amore, perché possiamo in tutto
trattare con Voi come vogliamo, senza bisogno che gli altri ci presentino o ci
introducano. Voi stesso vi abbassate a cosa così piccola come la nostra anima,
e ci dilatate e ampliate a poco a poco, in conformità a ciò che è necessario
per quello che desiderate porre in noi.
Le fondamenta dell’orazione
Forse penserà che nel parlarle di orazione le insegnerò come deve sedersi o
respirare, quanto tempo deve dedicare al suo esercizio e come dividerlo per
impiegarlo bene. Non è questa la mia intenzione. Le parlerò piuttosto di quelle
che considero essere le fondamenta sulle quali si deve elevare l’edificio
dell’orazione: sono l’amore degli uni verso gli altri, il distacco da tutto il
creato e l’umiltà (la quale, sebbene la indichi alla fine, è la principale). Se
queste cedono verrà giù tutto l’edificio.
In quanto all’amore, già si sa che quelli che di più hanno fatto per il
prossimo sono stati sempre i più grandi amatori di Dio, e tutto il resto è fumo
di paglia, che dura un momento, come si suol dire. E, per unirci a Dio, che è
lo stesso Amore, è chiaro che deve essere camminando nell’amore, come ci ha
insegnato il suo Divino Figlio. È importante rendersi conto che il suo amore ci
precede e accompagna sempre, giacché amore chiama amore. Impareremo ad amare i
fratelli se guardiamo a Colui che ci amò fino al punto di dare la vita per noi
e che ci ha chiesto di imparare dal suo esempio.
In quanto al necessario distacco, mi pare che sia chiaro come ci si debba
liberare da tutto quello che non è Dio per andare da Lui. Se i desideri e le
cose occupano i nostri pensieri e le nostre forze, come diremo che amiamo il
Signore al di sopra di tutto?
Le dicevo che è ugualmente necessaria l’umiltà, che non è altro che camminare
nella verità; questo vuol dire conoscerci, scoprire che non siamo vuoti, ma che
Dio stesso ci abita, e comprendere che siamo chiamati per unirci a Lui e che,
sebbene con le sole nostre forze non siamo capaci, possiamo disporci perché Lui
operi in noi. Chiediamogli con fiducia la sua luce, perché Lui non si nega a
nessuno.
La conoscenza di sé
Non si stupisca se le dico che la conoscenza di sé è essenziale. E non solo
agli inizi, ma in ogni momento, che è il pane con cui dobbiamo accompagnare
tutti i manicaretti. Il fatto è che molte volte non conosciamo noi stessi, né
sappiamo le grandi capacità che Dio ha messo in noi. E allora, come potremo
svilupparle e metterle in pratica?
Riprendo l’immagine che ho usato prima, perché non trovo una migliore: consideriamo
la nostra anima come un castello, tutto di diamante, nel quale vi sono molte
mansioni. Al centro vi è la stanza principale, dove abita Dio. Non vi è nulla
che possa paragonarsi alla grande bellezza di un’anima e alla sua immensa
capacità. Basta pensare che Sua Maestà dice di averci fatto a sua immagine e
somiglianza, per avere un’idea della nostra ricchezza interiore. Per quanto io
ne capisca, l’unica porta per entrare in questo castello è l’orazione.
Che confusione e pietà non poter – per nostra colpa – intendere noi stessi
e capire chi siamo. Non sarebbe grande ignoranza se uno, interrogato chi fosse,
non sapesse rispondere, né dare indicazioni di suo padre, di sua madre, né del
suo paese di origine? Se ciò è indizio di grande ottusità, assai più grande è
senza dubbio la nostra, se non procuriamo di sapere chi siamo, per fermarci
solo ai nostri corpi. Sì, sappiamo di avere un’anima, perché l’abbiamo sentito
e perché ce l’insegna la fede, ma così all’ingrosso, tanto è vero che ben poche
volte pensiamo alle ricchezze che sono in lei.
Per questo, la prima cosa da fare nel pregare è prendere coscienza della
grandezza e della dignità della nostra anima, della sua immensa capacità, per
farla fruttificare con l’aiuto del Signore, e così facendo non rimarremo nani.
Le distrazioni nell’orazione
Desidero insistere ancora una volta che l’essenziale nella nostra orazione
non è nel molto pensare, ma nel molto amare, per cui le nostre occupazioni
devono essere in quelle cose che più eccitano all’amore. Forse non sappiamo
ancora in che consista l’amore, e non mi meraviglio. L’amore di Dio non sta nei
gusti spirituali, ma nell’essere fermamente risoluti a contentarlo in ogni
cosa, nel fare ogni sforzo per non offenderlo, nel pregare per l’accrescimento
dell’onore e della gloria di suo Figlio e per l’esaltazione della Chiesa
cattolica. Questi sono i segni dell’amore, non già non distrarsi, quasi basti
la più piccola divagazione per mandare a monte tutto.
Io ho sofferto molto a causa di questo, perché mi si diceva che la mia
orazione non era vera se soggetta a distrazioni. Ma ho appurato per esperienza
che queste scompaiono solo nelle ultime mansioni, quando il Signore le fa
cessare. Per questo non bisogna dar loro troppa importanza, né permettere che
ci tolgano la pace, e neppure abbandonare l’orazione quando non siamo in grado
di controllare i pensieri. La soluzione è sopportarli con pazienza, poiché
procedono dalla debolezza della nostra natura umana, ferita dal peccato. E
siccome i pensieri dell’immaginazione sono frutto della nostra misera natura,
non dobbiamo inquietarci né affliggerci quando non possiamo controllarli. La
cosa importante è perseverare cercando di contentare in tutto il Signore, anche
con le nostre fragilità.
I gradi dell’orazione
L’orazione è un’arte, nella quale possiamo
perfezionarci durante tutta la vita. Non creda che la si debba praticare sempre
allo stesso modo. Per spiegarmi meglio, farò uso di un paragone: chi comincia a pregare deve
fare conto che è come colui che vuole piantare un orto su un terreno
abbandonato, pieno di pietre ed erbe cattive. Con l’aiuto di Dio dobbiamo
cercare, da buoni ortolani, di togliere dal cuore le pietre e le erbe cattive,
che sono i nostri peccati, e piantare quelle buone, che sono le virtù. Dobbiamo
fare in modo che queste piante crescano, e avere cura di innaffiarle, perché
non vadano perdute, ma diano fiori che facciano buon odore, affinché questo
nostro Signore venga spesso a dilettarsi nel nostro giardino e si trovi lì a
proprio agio.
Quelli che cominciano a fare orazione sono come quelli che cavano l’acqua
dal pozzo, che è qualcosa di molto faticoso e il risultato è minimo. È vero che
costa loro molto raccogliere i sensi, i quali, poiché sono abituati a divagarsi
e sono pieni di rumori, necessitano di molto lavoro. Hanno bisogno di abituarsi
a stare in silenzio interiore ed esteriore, leggendo su buoni libri e
discorrendo con il proprio intelletto su ciò che leggono, meditando sulla vita
di Cristo, e sulla conoscenza di se stessi, e sui misteri della nostra santa
religione. Ci sono molti libri per questo, i quali offrono meditazioni per ogni
giorno della settimana e all’inizio possono aiutare molto.
Il secondo modo di irrigare l’orto avviene servendosi di una noria con il
suo tornio e i canali, che tira fuori più acqua con meno lavoro (ricordo che a
casa di mio padre c’era una di queste). Chiamo questo modo «orazione di quiete»,
in cui le potenze dell’anima cominciano a raccogliersi dentro di sé. Bisogna
cercare di avere Cristo, nostro bene, sempre presente, abituandosi a non vedere
o a sentire nulla al di fuori di Lui. Se è triste, lo contempli sulla strada
della croce, perseguitato dagli uni, rinnegato dagli altri, intirizzito di
freddo, posto in tanta solitudine, in modo che vi potete consolare a vicenda. E
Lui è così buono che dimenticherà le sue pene per consolare le vostre. Se è
nella gioia, lo contempli risorto e goda nella sua gloria. Ma non si stanchi
nel molto pensare né si rompa la testa con molte parole, piuttosto impieghi la
volontà con molta delicatezza a starsene in amorevole attenzione e tenero
affetto con il suo Sposo. Quando la memoria e l’intelletto non aiutano la
volontà ad eccitarsi per amare di più, le ignori e si concentri in questa
amorevole attenzione al suo Sposo in pace e quiete, senza cercare parole né
considerazioni che lo vogliano spiegare. Si lasci guardare da Cristo e lo
guardi con affetto e gratitudine.
La terza forma di irrigare l’orto è quando si ha un fiume o un ruscello,
per cui l’acqua si avvia attraverso i solchi e si lascia che impregni la terra
con poco lavoro da parte dell’ortolano. È certo che il flusso d’acqua lo deve
dare il Signore. Questo terzo grado di orazione è un sonno delle potenze in cui
si gode di Dio con molta delizia, senza capire che cosa le succede né poterlo
spiegare a parole. Non mi sembra che questa pace, delizia e gioia nascano dal
proprio cuore, né dai suoi pensieri, né da quello che ha visto o udito, ma da
un’altra parte più interiore. La gioia che si prova non è come quelle di qui.
Penso che deve essere qualcosa che accade nel centro dell’anima, dove Dio è
presente e si comunica. L’anima si dimentica completamente di sé e desidera
solo compiere in tutto la volontà di Dio. Posso ben dire che si compie quello
che diceva l’apostolo san Paolo: che lo Spirito di Dio prega in noi con gemiti
ineffabili. È tale la gioia interiore che tutta ella vorrebbe essere lingue per
lodare il Signore, al quale dice mille sante e amorose assurdità.
Il quarto grado di orazione è come quando piove sul campo, il terreno si
inzuppa di più e l’ortolano non lavora per nulla. Così, quando Dio vuole
comunicarsi in questa divina unione, gode senza capire che gode, partecipando
alla vita, all’amore e alla compagnia di Dio, che la eleva e la introduce in
sé. Facciamo conto che i sensi e le potenze (che sono gli abitanti del
castello) ascoltano un sibilo amoroso del loro Re. Un sibilo così soave che
quasi non lo comprendono, ma produce il suo effetto e lasciano da parte tutte
le cose esteriori in cui erano occupati, si introducono nel castello e sono
tutti coinvolti in ciò a cui sono obbligati, che consiste nel servire il
proprio Signore, compiendo così l’ufficio per il quale sono stati creati. Allora
l’intelletto conosce i segreti ineffabili di Dio, la memoria rimane piena della
sua presenza e la volontà si fa una con quella di Cristo, di modo che può dire
con l’apostolo, che ora non è più lei che vive, ma è Cristo che vive in lei.
L’unione delle volontà
Non tutti provano gioia nell’orazione, che è
data da Sua Maestà a chi vuole e come vuole. Sarà bene che a coloro i quali il
Signore non dà favori tanto soprannaturali non venga meno la speranza, perché –
con l’aiuto di nostro Signore – tutti possiamo conseguire benissimo la vera
unione se ci sforziamo di acquistarla, volendo compiere in tutto la volontà di
Dio. Questa è l’unione che io ho desiderato per tutta la vita, che sempre
chiedo a nostro Signore e che è più evidente e sicura.
Ma noti bene che non basta desiderarlo o
immaginarlo. L’unico modo che abbiamo per sapere se veramente desideriamo fare
in tutto la volontà di Dio sta nelle opere concrete, le quali rivelano che il
nostro amore è vero, giacché il Signore ci chiede solo due cose sulle quali
dobbiamo lavorare: amore di Dio e del prossimo. Se le compiremo con perfezione,
adempiremo la sua volontà e staremo uniti a Lui con vera orazione.
L’amore è così importante che dobbiamo
praticarlo fin nelle più piccole cose, e non lasciarlo solo per le occasioni
straordinarie. Il Signore vuole che se lei vede un’ammalata alla quale può dare
qualche sollievo, non si curi di perdere la devozione e la consoli; e se ha
qualche dolore, faccia propria la sua sofferenza; e se è necessario, digiuni
affinché l’altra mangi. Questa è la vera unione con la sua volontà, e se sente
lodare molto un’altra persona si rallegri di più che se quelle lodi fossero per
lei stessa.
La perseveranza
Ho sentito tanto affetto particolare per lei, perché per me non c’è
maggiore delizia di trattare con persone che fanno orazione. Alcuni dicono che
questo è un sentiero stretto. A me non sembra, ma Strada Maestra, che di sicuro
ci porta al Regno promesso. L’anima occupata nell’orazione è come l’ape, che
fabbrica il miele nell’alveare. Così, quando volano a Dio e si riempiono della
sua dolcezza, possono estenderla per il mondo.
Certo, dobbiamo pregare sempre e in ogni luogo, ma è tanta la nostra
debolezza, che sarà bene cercare alcuni momenti di solitudine e impiegare tempi
regolati da dedicare ogni giorno al Signore, e una volta iniziata l’orazione,
non lasciarla per qualsiasi nonnulla, ma perseverare fino a bere alle acque
della vita che Nostro Signore ci promette. Cominci, dunque, con una determinata
determinazione, dedicando ogni giorno un poco del suo tempo a stare in presenza
di Colui che tanto ci ama. E non lasci l’orazione mai, per molte aridità,
ostacoli e distrazioni che il demonio le ponesse davanti; perché verrà tempo in
cui il Signore glielo valorizzerà tutto. E, poiché niente si apprende senza un
pochino di sforzo, dia per bene impiegato questo, perché le dico che, per un
momento che il Signore le faccia gustare la sua presenza, restano compensati
tutti i travagli che troverà nel cercare l’orazione. Ponga gli occhi su Cristo
e su tutto quello che Lui ha passato per amor nostro, e tutto ciò che farà sarà
poco.
Rimanga vostra grazia con Dio e con la gloriosa Vergine Maria, Nostra
Signora. Lei non è stata un istante della sua vita senza trattare di amore con
il suo Divin Figlio, e così deve essere la nostra principale maestra di
orazione, insieme con il mio padre e signore san Giuseppe che così intimamente
trattò sua Maestà sulla terra. E si mantenga su questa strada, senza
abbandonare il mio Signore, perché Lui stesso insegna che iniziare è di molti e
perseverare di pochi; e in questi tempi difficili sono necessari amici forti di
Dio.
Resto serva di vostra grazia. Teresa di Gesù.
8. Conclusione
Teresa di Gesù fu una donna profondamente contemplativa ed efficacemente
attiva. Come dicevamo all’inizio, in queste pagine abbiamo cercato di
avvicinare il lettore alla sua ricchissima personalità a partire da quattro
aspetti che la caratterizzano: donna, scrittrice, fondatrice e maestra
d’orazione. Perché si comprenda meglio l’originalità della sua proposta,
l’abbiamo presentata nel contesto in cui ella è vissuta, dal quale prende
alcuni elementi e con il quale si scontra per altri.
Siamo fermamente convinti dell’attualità dei suoi insegnamenti, e che essi
possono aiutare il credente di oggi a trovare la via per incarnare la perenne
novità del vangelo nella società e nella Chiesa dei nostri giorni. Crediamo di
aver offerto alcune chiavi per capire il suo messaggio e confidiamo sul fatto
che la lettura di questo libro induca molti ad avvicinare gli scritti di santa
Teresa. Lì scopriranno che «se la grandezza di Dio non ha limiti, non ne hanno
neppure le sue opere» (7M 1,1). Il Dio che Teresa ci ha presentato come amico e
compagno è ancora bramoso di comunicare con noi. Seguendo il suo esempio e la
sua dottrina, apriamogli le porte del cuore!
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