lunedì 31 dicembre 2012

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Il Piccolo Fiore di Gesù e il suo Tempio in Anzio

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Il Piccolo Fiore di Gesù e il suo Tempio in Anzio: Il Piccolo Fiore di Gesù e il suo Tempio in Anzio

Il Piccolo Fiore di Gesù e il suo Tempio in Anzio

venerdì 9 novembre 2012

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Famiglie Carmelitane Amici del Carmelo

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Famiglie Carmelitane Amici del Carmelo: Il Gruppo Famiglie Carmelitane e gli Amici del Carmelo di S.Silvestro si incontrano ogni ultima domenica del mese presso il Convento d...

Famiglie Carmelitane Amici del Carmelo

Il Gruppo Famiglie Carmelitane e gli Amici del Carmelo di S.Silvestro si incontrano ogni ultima domenica del mese presso il Convento di S.Silvestro in Montecompatri!!! ;-) Prossimo appuntamento Domenica 25 Novembre:
ORE 10.00 - Accoglienza
ORE 10.30 - Catechesi e condivisione
ORE 12.30 - Agape fraterna (ognuno porta qualcosa da condividere!).
ORE 16.30 - S.Messa
ORE 17.15 - Adorazione Eucaristica

lunedì 29 ottobre 2012

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Notiziario carmelitano 2012

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Notiziario carmelitano 2012: Notiziario carmelitano 2012

Notiziario carmelitano 2012

Notiziario carmelitano







Notiziario carmelitano



CORSO DI FORMAZIONE OCDS – MONTECOMPATRI 5 – 7 OTTOBRE 2012

DI: MARIA TERESA CRISTOFORI

Il Corso di formazione per i membri dei consigli delle Fraternità OCDS Toscane e Romane, ha avuto luogo dal 5 al 7 ottobre 2012  nella “Casa S. Silvestro” dei PP. Carmelitani di Montecompatri (RM).  Il Delegato Provinciale OCDS del Commissariato Padre Arnaldo Pigna, relatore del Corso, ha aperto i lavori presentando l’esposizione dottrinale del tema centrale prescelto ”La vocazione carmelitana come chiamata ad una vita di intimità con Dio attraverso la via dell’orazione.”      Rivolgendosi ai numerosi Carmelitani Secolari Intervenuti, P. Pigna ha delineato i punti salienti da porre alla base di ogni azione formativa rivolta a trasmettere l’essenza e i valori della vocazione carmelitana. Partendo sempre  dalla convinzione che per formare occorre conoscere con chiarezza e profondità concetti e contenuti da comunicare, ne consegue che chi si accinge a formare deve obbligatoriamente formarsi, disponendosi ad accogliere, assimilare e soprattutto a vivere quanto si intende trasmettere agli altri.   Senza mai dimenticare che le parole del formatore edificano poco se non scaturiscono dalla sua personale esperienza e testimonianza di vita, appare tuttavia evidente che, per poter comunicare ogni tipo di conoscenza, bisogna essere in grado di saperla trasmettere usando  un linguaggio adeguato alla capacità di comprensione di coloro che ascoltano, mirando, soprattutto, a suscitare il loro interesse ed a coinvolgere la loro mente e il loro cuore.
                            LA VOCAZIONE CARMELITANA TERESIANA
La vocazione carmelitana teresiana parte dalla fondamentale scoperta che Dio non è lontano da me, sta accanto a me e mi vuole bene: tale consapevolezza richiede una risposta adeguata all’offerta di tale amore infinito e necessita, perciò, di tradursi  in una scelta di vita che ponga al primo posto la relazione con Dio e l’incontro con Lui.   Le Costituzioni OCDS nel delineare l’identità dei Carmelitani Scalzi Secolari al punto n° 3, li definiscono come membri della Chiesa chiamati a vivere “in ossequio di Gesù Cristo” attraverso “l’amicizia con Colui dal quale sappiamo essere amati”, servendo la Chiesa. Sotto la protezione di Nostra Signora del Monte Carmelo, e ispirandosi a Santa Teresa di Gesù, a San Giovanni della Croce e alla tradizione biblica del profeta Elia, essi cercano di approfondire gli impegni ricevuti nel battesimo.  Particolarmente appropriato è il riferimento ad ELIA, poiché le radici dell’Ordine Carmelitano vanno ricercate proprio nell’antico profeta che verso l’anno 856 avanti Cristo sfida sul Monte Carmelo i profeti del falso Dio Baal e trionfa su di essi.  Egli è animato da un profondo senso di Dio, avverte la sua prossimità : “Vive il Signore alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1) e riconosce in Lui un Essere vivo che agisce nella storia. Si strugge di zelo per il Signore Dio degli eserciti e, ponendosi al suo servizio, richiama, rimprovera, minaccia e castiga allo scopo di far riconoscere il primato del suo Signore. Quando, però, per l’ira di Gezabele vede fallire i suoi progetti, sconfitto e depresso si rifugia in una caverna sul monte Horeb, viene richiamato ad uscir fuori ed a mettersi al cospetto di Dio. Scopre così che il Signore non era nel vento forte, né nel fuoco, né nel terremoto, ma nella brezza di un vento leggero da percepire in una misteriosa e sottile voce di  silenzio, che cambia la sua conoscenza di Dio e trasforma il suo carisma profetico in un carisma di ascolto e di adorazione. Molti secoli dopo, Santa Teresa di Gesù rivive e completa l’esperienza di Elia, al pari del profeta avverte la prossimità e il primato di Dio nella sua vita e, illuminata dalla rivelazione del Nuovo Testamento, scopre e  sperimenta che Dio è Amore e dona ad ogni uomo  la vocazione ad entrare in  comunione con Lui. Si sente amata, accolta, desiderata ed instaura con il Signore un intimo rapporto di amicizia senza aver bisogno di uscire a ricercarlo, poiché acquisisce la certezza che il luogo dell’incontro si trova rientrando in se stessa, all’interno del suo essere, nella profondità ed al centro del suo cuore. Percepisce che tale rapporto trae la sua origine dall’esercizio della fede, della speranza, della carità e delle altre virtù umane e, alla luce della grazia divina, l’anima  appare alla Santa di una bellezza straordinaria ed Ella, per descriverla, ricorre all’immagine di un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo fatto di molte stanze, alcune poste in alto, altre in basso ed altre ai lati. Al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, in cui si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima. S. Teresa comprende che l’anima, per entrare in relazione con il Signore, deve muovere da un atteggiamento di radicale umiltà, che l’aiuti a conoscere la verità di Dio e di se stessa seguendo un itinerario di perfezione che favorisca il suo intimo incontro di amicizia con Lui. Si rende conto che solo la preghiera rappresenta il privilegiato canale per entrare in sintonia con il  Signore attraverso la mediazione di Cristo Gesù, per questo a coloro che intendono entrare in contatto con Dio all’interno di se stessi, ricorda che la porta per entrare in questo castello (vale a dire nell’interiorità dell’anima) è l’orazione e la meditazione.   S. Teresa dà inizio alla riforma del suo Ordine e fonda in Spagna numerosi monasteri e conventi proprio per portare le anime ad intraprendere il cammino dell’orazione, da Lei chiaramente descritto nelle sue numerose opere. Partendo dalla sua esperienza interiore, diviene un’eccellente maestra di preghiera desiderosa di aiutare le anime ad instaurare un autentico rapporto di amicizia con Dio, per manifestargli tutto l’amore che merita e trarre da Lui la forza ed il coraggio per amare e fare del bene ai fratelli. Come carmelitani secolari, in grazia della vocazione ricevuta, siamo chiamati a trasmettere il carisma tipico della nostra S. Madre Teresa che è quello dell’orazione, avvertendone  la connaturalità, come forza che deve spingerci, dal di dentro, a viverlo e  propagandarlo. L’impegno ad entrare nella volontà di Dio, va coltivato nel rispetto dei seguenti punti fondamentali: a) senso profondo del primato di Dio nella nostra vita; b) ascolto contemplativo della divina Parola, partendo sempre dalla certezza di essere amati da Dio; c) zelo apostolico che miri a disporre l’esistenza a servizio degli altri; d) totalitarismo ascetico - spirituale come presupposto per l’incontro e l’ esperienza di Dio.
PRESENTAZIONE DELLA GRIGLIA – GUIDA PER IL LAVORO PERSONALE E DI GRUPPO
L’intervento del Prof. Don Beppe Roggia, finalizzato a preparare i corsisti  ad avviare un produttivo ed efficace lavoro personale e di gruppo, si è rivelato ampiamente positivo e fruttuoso. La griglia da lui predisposta in riferimento all’esposizione dottrinale, ha presentato una formulazione di domande davvero coinvolgenti e capaci di suscitare interesse e scandagliare l’intimità più profonda di ciascuno dei presenti. La riflessione a livello personale, ha favorito l’incontro tra i membri dei quattro gruppi gestiti, ciascuno, da un conduttore e da un segretario, che regolando i tempi, hanno offerto a tutti l’opportunità di manifestare il proprio pensiero e la propria esperienza. All’interno di ogni gruppo si è subito stabilito un clima di fraterna amicizia, che ha consentito un sereno scambio di opinioni e di idee, tramite un rapporto  di apertura e di reciprocità che ha arricchito tutti quanti. A conclusione del lavoro, il rappresentante di ogni gruppo ha esposto all’intera assemblea una breve sintesi del lavoro svolto, con interventi e richieste di chiarificazione, sia da parte di don Roggia, che da parte di alcuni membri presenti.
CONSIDERAZIONI FINALI
Questa breve relazione non può certamente contenere né esprimere tutti i contenuti e i doni di grazia che, senza dubbio, hanno arricchito il patrimonio spirituale dei vari partecipanti, ivi compresi alcuni Padri Assistenti OCDS Toscani e Romani, che ci hanno confortato ed accompagnato con il loro consiglio e la loro presenza. Un sentito ringraziamento va ai Rev.mi Relatori P. Arnaldo Pigna e Don Beppe Roggia, per la loro grande competenza e capacità di mettere a disposizione di tutti la loro cultura e dottrina spirituale, trasmettendola in modo accessibile, penetrante e veramente in grado di suscitare radicali cambiamenti nelle anime.  Il nostro riconoscente “grazie”, va esteso al nostro Rev.mo Commissario Padre Gabriele Morra, che è stato tra noi ed ha presieduto la solenne Concelebrazione Eucaristica della giornata di sabato. Ci ha dimostrato e fatto sentire il suo interessamento, la sua vicinanza  e ci ha rivolto parole di incoraggiamento, esortandoci a procedere sempre in avanti.   La venuta in mezzo a noi del MRP Delegato Generale OCDS Padre Alzinir Francisco Debastiani, ha recato a tutti grande gioia e consolazione. Vedere un giovane e preparato religioso OCD, che stima ed apprezza l’Ordine Secolare, ci ha dato fiducia, sicurezza ed un rinnovato entusiasmo per un più roseo avvenire.  Durante la Concelebrazione da lui presieduta  nella giornata finale di domenica, ci ha ricordato che la nostra speranza è Cristo Risorto che, incarnandosi, ci ha dimostrato il suo amore, si è fatto uno di noi, nostro fratello ed è a Lui che dobbiamo chiedere un cuore di bambino, per poter avvertire e crescere alla sua presenza.         Seguendo la via dell’orazione  sull’esempio della B.V. Maria e dei nostri Santi, dobbiamo camminare nella volontà di Dio e conformare la nostra vita a Cristo Gesù, in tutte le ore della giornata. L’anno della FEDE ci aiuti a ravvivare, purificare, confermare e confessare il nostro Credo,  con l’esercizio delle virtù, la perseveranza nella preghiera e l’approfondimento costante del nostro rapporto di amicizia e di intimità con Dio.
Le conoscenze acquisite e l’entusiasmo acceso in noi dalla frequenza di questo Corso, rendano più fecondo e fruttuoso il ritorno nelle nostre Fraternità, impegnandoci maggiormente a migliorarle, a renderle più vive e capaci di approfondire e testimoniare nella Chiesa il nostro carisma carmelitano teresiano.
Caprarola, 17/10/2012
                                                                Maria Teresa Cristofori      
                                                         (Presidente provinciale romana OCDS)


martedì 9 ottobre 2012

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montec...

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montec...:   Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici )  Montecompatri 5-7 ottobre 2012. Scopo del Convegno : come trasmettere i valo...

Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montecompatri 5-7 ottobre 2012.






 Convegno OCDS ( per Consigli e FormatriciMontecompatri 5-7 ottobre 2012.

Scopo del Convegno: come trasmettere i valori della vocazione carmelitana.

Tema centrale:  La vocazione carmelitana come chiamata ad una vita di intimità con Dio, attraverso la via dell’orazione
            “Vivere alla presenza e nel mistero del Dio vivo” (Cost. OCDS  9c)
Procedimento:
La parte dottrinale sarà svolta il 5 sera dal p. Pigna
Tutto il giorno 6 sarà dedicato alla ricerca di una metodologia pratica di trasmissione delle verità-valori concettualmente definiti, perché possano essere ben compresi e, poi, tradotti in comportamenti. Il lavoro di questo giorno  sarà guidato dal professor D. Beppe Roggia il quale ci aiuterà offrendoci una griglia-guida e formulando delle domande a cui rispondere, prima individualmente, poi in gruppo ristretto, poi in assemblea.
Il giorno 7 mattina sarà tutto impiegato nel lavoro comunitario più impegnativo: trarre delle conclusioni pratiche di cui possa utilmente servirsi chi è incaricato della formazione.


Riflessioni previe:

            E’ evidente che per “formare” bisogna innanzitutto conoscere ciò che si vuole comunicare e trasmettere; ed è altrettanto evidente che per “formarsi” bisogna debitamente accogliere, per poter poi assimilare e vivere, ciò che si è ricevuto. Il processo completo, comunque, è questo: Conoscere, trasmettere, accogliere, vivere. Dove il vivere costituisce il termine e lo scopo di tutto. Una formazione che si fermi ad un accumulo di nozioni non è tale. Bisogna trasmettere in modo che l’altro capisca, in modo di aiutarlo ad accogliere ciò che capisce, e in modo di invogliarlo a vivere ciò che ha ricevuto.
            Se è vero che bisogna arrivare a coinvolgere la vita ne segue che non ci si può accontentare di trasmettere una dottrina; tale dottrina deve essere, almeno in qualche modo, già rivestita, “colorata” (resa viva ed attraente)  dalla esperienza. Questo vuol dire che non basta possedere una dottrina che traduce un valore in formule concettuali, se allo stesso tempo non si trasmette anche un po’  la vita in cui questo valore si incarna ed esiste.
Ne segue che un processo autentico di formazione non parte dalla dottrina ma dalla vita. Così abbiamo questo ordine: Vivere, conoscere, trasmettere.  Dove il conoscere non è più solo teoria, ma è anche esperienza di vita. Chi vuol trasmettere deve, dunque, anche vivere.  Il formatore non è un megafono ma un testimone. E’ necessario riscoprire il  “contemplata aliis tradere” che una volta era di una evidenza solare. Si tratta di trasmettere la propria contemplazione, non la propria sapienza, tantomeno la propria cultura. L’evangelista Giovanni direbbe “vi trasmettiamo ciò che abbiamo visto e toccato”. Non serve sapere tutto della Chiesa e di Cristo se  poi non si crede nella Chiesa e in Cristo, cioè se non si accoglie Cristo e non ci lascia da Lui prendere, possedere e in Lui trasformare. Non serve conoscere tutta la dottrina teresiana sul cammino della preghiera se poi questo cammino non lo si percorre. Si rischia solo di trasmettere aridi concetti che non producono vita.

Ma, dicevamo, è necessaria anche la disponibilità di chi accoglie. E questo suppone, prima di tutto, che sia in condizione di farlo. Dato per scontato il desiderio di ricevere, la prima condizione è di avere dentro la capacità di “capire”, si deve cioè avere lo spazio interiore sufficiente per poter “accogliere” dentro di sé. Il che significa che nel proprio intimo ci deve essere qualcosa che sia in sintonia, un qualcosa che corrisponda  al valore che si espone e si propone, un qualcosa che fa essere in un atteggiamento di apertura e quasi di attesa, perché si “sente” (magari ancora confusamente) che corrisponde ad una propria esigenza o aspirazione interiore. Tale apertura e anelito interiore verso un determinato valore che orienta e dà senso alla vita è dato dal dono della vocazione. E’ chiaro, allora, che se questa vocazione non c’è, diventa molto problematico parlare della formazione a vivere la vocazione carmelitana. Di qui la necessità assoluta di un autentico discernimento.


I.                   La vocazione carmelitana teresiana

Ora questa vocazione in che cosa consiste? Lo possiamo vedere in modo emblematico in colei che  l’ha pienamente incarnata, Teresa di Gesù che, a sua volta, fa riferimento all’ispiratore primitivo di tutta la tradizione carmelitana, Elia profeta. Sono le figure a cui possiamo idealmente guardare per capire in qualche modo cosa vuol dire “vita di intimità con Dio”, e imparare dalla loro esperienza la strada da percorrere.
Se guardiamo la loro storia ci rendiamo immediatamente conto che forse il nostro modo di intendere le espressioni “vita di intimità”, e “via dell’orazione” deve essere riveduto. Il frequente ripeterle ha finito talvolta con il banalizzarle, svuotandole della loro ricchezza e adattandole alla nostra mediocrità.
Non sono pochi che pensano che basta andare a Messa, almeno i giorni festivi; dire il Rosario; partecipare alla riunione mensile; dedicare un po’ di tempo alla meditazione, se troviamo il tempo e ne siamo capaci, per considerarsi carmelitane/i, che vivono la loro vocazione contemplativa. Ma questa è un’autentica illusione.

 Alcune note della nostra vocazione le troviamo già chiaramente delineate nel santo profeta Elia. Se guardiamo a lui la prima cosa che notiamo è un profondo senso di Dio. Il primo posto è del Signore. A Lui sempre il primato. Dalla sua presenza la vita del profeta riceve senso, da Lui dipende,  per Lui si spende, a Lui tende. Lui ci dice che il vero senso di Dio si ha quando Egli è sentito come un essere vivo, all’interno della nostra storia, presente nella trama della nostra vita. “Vive il Signore, alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1). Non dunque un Essere lontano, tanto meno una dottrina, un idea, un ideale, ma una Persona di cui io sento la presenza, la imminenza e la incombenza. Una presenza viva, operante, determinante.
 Da questo consegue necessariamente lo zelo bruciante per la sua gloria, cioè il bisogno di gridare la sovranità di Dio e di lottare perché sia da tutti riconosciuta. Lo zelo (1 Re 19,14) che spinge il profeta a scuotere gli altri ha come unico motivo questo senso di Dio, che incombe su di lui con la sua grandezza e maestà e gli impone di difenderne l’onore e promuoverne la gloria. L’unico scopo che Elia si prefigge quando richiama, rimprovera, minaccia e castiga è di far riconoscere il primato di Dio, perché gli si renda la lode e il culto dovuto. L’uomo è suddito di questo Signore supremo, e come tale si deve comportare. Chi si rifiuta va incontro alla rovina.

Inizialmente il Dio di Elia è il Signore e padrone della storia che fa sentire la sua forza e la sua presenza annientando i propri nemici. Entra così profondamente nella storia che, in un certo qual modo, vi rimane rinchiuso. In effetti Elia crede di poterlo conoscere, capire ed esaurire all’interno dello schema umano di comprensione della realtà e di conduzione della storia. Un Dio che domina tutto e lo dimostra attraverso fenomeni straordinari e interventi spettacolari. Elia si identifica con tutto questo e si pone a pieno servizio, mettendoci tutto di sé. Servitore fedele, lotta e mette a disposizione la vita per difendere il primato e promuovere la gloria del suo Dio. La sua vittoria è quella del suo Dio. Non si rende conto che nell’identificarsi con il programma di Dio, finisce con l’identificare Dio con il progetto suo. E quando si vede frustrato nelle sue aspettative e si sente sconfitto, cade nella totale depressione: è tutto finito, non resta che morire.
 A questo punto comincia un nuovo cammino che lo porterà a scoprire meglio il suo Dio, non quello che lui aveva identificato con i suoi concetti. I quaranta giorni di cammino nel deserto sono la purificazione attraverso la quale deve passare. Sull’Horeb capisce chiaramente che Dio non sta né nel fuoco, né nel terremoto, né nel turbine, cioè in niente di ciò in cui invece aveva creduto di vederlo. Lo percepisce solo in un leggero alito di vento, ma non riesce nemmeno a vederlo in volto, solo di spalle. Dio, quello vero, non corrisponde a quello che si era sempre immaginato. A questo punto può tornare indietro; non è vero che è tutto finito, c’è già pronto chi  prende la sua eredità. Lui può uscire dalla storia, sconfitto nei suoi programmi. Ma non è sconfitto Dio, che continua a condurla a modo suo.
La presenza di Dio nella storia è diversa da come la immaginava Elia, ed egli alla fine lo scopre non nel fuoco divorante ma nella profonda solitudine da cui emerge una parola di silenzio. Il momento culminante della esperienza di Dio fatta da Elia non è il monte del sacrificio quando Dio si mostra presente ed operante nel fuoco che brucia tutto, ma sul monte Horeb nel leggero alito di vento. E’ così che gli si svela il mistero di Dio; ma un mistero che rimane … misterioso. Chi è questo Dio per Elia profeta? E’ uno che lo ha conquistato, uno per il quale ha consumato la vita, uno che, comunque, non è riuscito a vedere e a conoscere fino in fondo. Siamo ancora nel Vecchio Testamento.

L’esperienza di Teresa ricalca, in qualche modo, e poi completa e supera l’esperienza del Profeta. Anche Teresa sente forte il primato di Dio. Già da bambina intuisce che la vita è data per andare ad incontrarlo. E presto capisce che è nel silenzio, non nel tumulto del fare, che lo incontra. In un certo senso lei parte da dove Elia era arrivato. E la “caverna” rivela tutto il suo simbolismo: non si tratta di un luogo materiale, ma del nucleo più profondo del proprio essere, il centro del cuore. E’ lì che Dio si trova, ed è lì che aspetta per farsi incontrare e conoscere.
 Dio entra nel nostro cuore per introdurci nel suo, cioè per stabilire con noi una profonda intimità, uno scambio di vita. Un reciproco e intimo rapporto di amicizia, dirà Teresa. Essa scopre ed esperimenta fino in fondo il contenuto centrale della rivelazione del Nuovo Testamento: Dio è amore e nel comunicare con noi non può fare altro che darsi come amore. Ciò vuol dire che solo in un contesto e in un rapporto di amore si conosce e si incontra Dio. Dio si fa presente amando e non accetta altra presenza di risposta se non la presenza dell’amore. Questo è il contenuto centrale della esperienza di Teresa che ha costituito il filo portante della spiritualità teresiana lungo la storia, da s. Giovani della croce, a s. Teresa Margherita Redi, a S. Teresa di Gesù bambino, a Elisabetta della Trinità, a s. Teresa de los Andes.
Per Teresa, alla luce del mistero di nostro Signore Gesù Cristo, il Dio di Elia acquista un volto ben preciso, quello dell’Amore. Non un Dio, dunque, che domina e incute timore con la sua maestà e potenza, ma un Dio che seduce, che chiama, che avvince e trascina in una sublime vicenda di comunione sponsale.
Di conseguenza nasce in Teresa anche un’altra fortissima esigenza. Poiché sposa è pienamente coinvolta nel destino e nella missione del suo Sposo, ella non può vivere che per la sua gloria, non può operare che per offrirgli cooperazione nell’opera della salvezza. Amarlo e farlo amare, sarà il suo vivere. Lo “zelo zelatus sum” del guerriero Elia, diviene “meum zelabis honorem” nella sposa Teresa. E’ la piena comunione dell’amore che fa crescere uno zelo apo­stolico sconfinato, che deriva, si sa, sempre dallo stes­so cuore: il Cuore di Dio! Se l'anima entra nel Cuore di Dio at­traverso l'intimità dell'amicizia, diventa partecipe di tutte le  sollecitudini del Signore.
“Il Signore desidera la salvezza di tutti ed ecco l'anima trasci­nata a volere tutti salvi. Il Signore, per salvare tutti, manda il suo Unigenito Figlio, lo offre in olocausto e lo distribuisce in nutrimento incessante. L'anima che si trova trascinata negli stessi desideri, nelle stesse aspirazioni di fare della propria vita un olocausto, perché il regno di Dio si compia, perché le anime conoscano il Signore, perché la Chiesa possa assolvere la sua missione, è, così, presa nel turbine santo di Dio-Amore. Ecco una splendida pagina del card Ballestrero:
“Lo zelo apostolico, l'impegno apostolico nasce da questa in­teriore carità. E se qualche volta le notizie, le informazioni, i da­ti della vita risultano documenti di quanto sia necessario prega­re perché il Signore sia conosciuto e amato, di quanto sia neces­sario espiare perché il Signore è tradito e offeso, di quanto oc­corra offrire perché il Signore sia glorificato e riconosciuto, ec­co che le anime, di fronte a queste informazioni, notizie, espe­rienze, s'accendono non tanto per la forza dell'informazione, ma perché l'informazione mette allo scoperto ciò che c'è nel profondo per l'esperienza della propria intimità con il Signore.
“Quando santa Teresa di Gesù (C 1, 2) si sentiva sconvolta, sentendo le notizie o dell'America appena scoperta o del nord Europa in preda alla ribellione di Lutero, non attingeva il fer­vore e la passione del suo zelo per la difesa di Gesù, per la dife­sa dei tabernacoli, per la gloria del Padre tanto dai pettegolezzi delle informazioni; piuttosto l'informazione colta a volo, pura­mente passeggera, metteva in lei allo scoperto tutta una ric­chezza di segreti divini che dal Cuore di Dio, attraverso la con­templazione e l'orazione, traboccavano in lei.
“Questo dev'essere anche il modo, il tipo dello zelo dell'anima contemplativa, che non ha bisogno d'andare ad alimentare il suo fervore d'immola­zione, di preghiera, di espiazione con il cumulo delle notizie, ma piuttosto con l'esperienza della fede di Cristo, con l'espe­rienza della sofferenza e dell'olocausto del Signore, e con l'esperienza dei disegni di Dio. Allora lo zelo non distrae, al contrario: nutre e fa passare dalla solitudine della preghiera al­l'impegno della generosità, all'operosità del sacrificio, con un'assoluta libertà interiore e un'assoluta spontaneità. E l'ani­ma più si dà, più si darebbe, più si consuma e più si consume­rebbe in questo crogiuolo della carità che è, in fondo, il segno definitivo che la sua orazione è autentica e che la sua amicizia con il Signore è più di quella superficiale simpatia che è affida­ta soltanto ai punti esclamativi.
“La nostra vita di orazione, allora, diventa crogiuolo e forna­ce della nostra vita di carità, e la nostra vita di carità, continuo sforzo umile ma volenteroso da parte nostra per introdurci sempre più profondamente nella santa contemplazione. Si deve arrivare a questo: a passare dall'ebbrezza dell'amore di Dio allo zelo dell'amore per i fratelli, sperimentando che l'una e l'altro sono la stessa cosa, ricordando che per vivere di questi estremi - chiamiamoli quasi beatifici - della carità, bisogna saper portare quotidianamente quel più umile peso della carità spicciola, anonima, senza risonanze, non degna di essere scritta sui nostri e sugli altrui diari, fatta di piccole e continue cose, nelle quali la norma suprema è questa: non cercare mai se stessi, ma cercare sempre il Signore per dargli gloria, per dargli onore, per renderlo consolato. In questo senso l’esercizio della carità, in tutte le sue forme, ha sempre una grandissima importanza per la nostra vita di orazione” (L’Eterno progetto p. 24-236)

Tutta la vita di Teresa è una dimostrazione che la passione per Cristo è anche passione per l’umanità; due aspetti indissolubili dello stesso amore. Come perdere di vista Cristo sarebbe infedeltà, così sarebbe anche infedeltà se si perdesse di vista l’umanità da salvare e da portare a Gesù. La clausura più stretta non è isolamento, ma un modo di relazionarsi più intimamente con Dio, per entrare nel suo cuore e acquistarne le dimensioni 

Per quanto riguarda la dedizione al Signore, Teresa riprende decisamente il programma di Elia. Se il Signore è Dio non si può zoppicare un po’ di qua e un po’ di là, bisogna seguirlo in maniera rettilinea e totale. Tendere a lui senza compromessi, giravolte e tortuosità. Bisogna determinarsi per Lui senza condizioni perché solo Dio è tutto, e solo Dio basta. Sappiamo come Giovanni della croce (con la famosa ascesi del tutto e del nulla,1S 13,11-13) darà a questa esigenza fondamentale dell’anima teresiana, una formulazione ben precisa, addirittura drastica. Chi riceve la vocazione carmelitana non può ignorare e non può trascurare questa dimensione.

Appare chiaro, allora, il nesso intrinseco che esiste nella nostra vocazione, tra il senso profondo del primato e della trascendenza di Dio, l’atteggiamento contemplativo di ascolto e di abbandono che ne deriva, lo zelo apostolico che mette a disposizione tutta l’esistenza, il totalitarismo ascetico e spirituale che la caratterizza. Sono valori inseparabili della nostra vocazione.
Essere in intimità vuol dire reciprocità di vita, vuol dire comunicare, condividere, conoscere, possedere e appartenere; vuol dire vivere, sentire, esperimentare la comunione totale di vita, di destino e di missione.

Come Teresa è arrivata a questa intima comunione personale con Dio? Lo sappiamo, attraverso la via dell’orazione. Questo è un elemento che caratterizza fortemente la nostra vocazione e merita di essere trattato in modo specifico, in un altro eventuale convegno. Però almeno una cosa sento il dovere di dirla. Quando si parla dell’orazione come via, non si deve pensare ad un cammino difficile che bisogna faticosamente percorrere fino in fondo, per poter, solo al termine, incontrare intimamente il Signore. Si tratta di un cammino che inizia già con un certo rapporto di intimità, le cui tappe progressive sono già un approfondimento di detta intimità, al punto che camminare nella via dell’orazione vuol dire progredire nella vita di intimità con il Signore. Fare orazione, dunque, è già stabilire un rapporto personale, e camminare nella via dell’orazione vuol dire semplicemente approfondirlo. L’inizio del cammino e il suo progresso, dunque, è dato dal grado di intimità che si stabilisce. Se questa intimità non c’è, vuol dire che non si sta nel cammino, vuol dire che non si prega davvero. E questo potrebbe significare che non si vive una autentica vita cristiana che, se è tale, non può non essere teologale cioè rapportata a Dio. Un rapporto che è originato dalla fede che ce lo fa conoscere, dalla speranza che ce lo fa desiderare, dalla carità che ce lo fa possedere. Ma questa è, appunto, la preghiera teresiana.. Per Teresa, infatti, la preghiera consiste nello stabilire un rapporto di amicizia, a tu per tu, che deriva dal fatto di sapersi (attraverso la fede) e di sentirsi ( attraverso la carità) amati (Vta 8,5).

Il punto allora è vedere come arrivare a mettersi in questa via, cioè a fare orazione. Dire che per entrare in comunione con Dio bisogna pregare rischia di essere una tautologia. Bisogna farsi una domanda più a monte: cosa bisogna fare per stabilire questo rapporto, cioè per mettersi in condizione di pregare. Per S. Teresa la risposta è chiara: una vita orientata verso Dio e ordinata attraverso l’esercizio delle virtù e il compimento dei doveri del proprio stato. In specie ella raccomanda la povertà, il distacco, l’umiltà, l’amore fraterno. E’ la vita ordinata che permette di entrare e, poi, progredire  nel cammino della orazione teresiana. A sua volta, poi, sarà la orazione cioè la comunione sempre più piena con Gesù che, assimilando a Lui, favorisce e permette una vita sempre più simile alla sua.
 Ma il punto di partenza è la vita. Per poter pregare bisogna decidersi per Dio e sceglierlo decisamente, senza compromessi e senza condizioni. Se non c’è questo, niente intimità. Dio ci prende sul serio e vuole essere preso sul serio. La vera difficoltà della preghiera non sono le distrazioni (come sempre diciamo) ma la incoerenza della vita. D’altra parte, la stragrande maggioranza di queste distrazioni è la conseguenza diretta di questa incoerenza, di una vita non ordinata.
   Alla preghiera ci portiamo noi stessi, cioè la nostra vita. In essa dunque non si può avere un rapporto filiale  con il Padre e di amicizia con Gesù se non si vive da figli e da amici. Non significa evidentemente che bisogna essere perfetti, ma che la vita sia sostanzialmente orientata a Lui e che si nutra il desiderio di incontrarlo, questo sì. Diversamente gli stessi atti di preghiera saranno semplici doveri da cui liberarsi attraverso l’adempimento. E questo tutto può essere fuorché un appuntamento tra amici che si vogliono bene, cioè tutto può essere fuorché orazione teresiana.

A questo punto nasce sempre il solito problema del tempo. Non lo troviamo mai! Alla base di soluzione di ogni problema sta il desiderio di pregare. Si tratta di vedere se esso c’è davvero. E’ certo, infatti, che voler pregare è già in qualche modo pregare e che il “desiderio sostituisce la preghiera se… appena possibile diventa preghiera”. In fondo è tutto questione di amore, la preghiera infatti è un modo di vivere e di esprimere l’amore. E quando si ama si cerca la compagnia della persona amata e si desidera assecondarla nei suoi desideri. L’amore, quando c’è, si vede, diventa ricerca e diventa servizio. Se questo è il punto, allora il problema non sta nel vedere come pregare quando si è occupati. Quando l’amore c’è, esso non scompare nelle occupazioni, e alla minima opportunità si fa sentire. Non si tratta, dunque, di chiedersi se si ha tempo per poter pregare, ma se si ha tempo per amare.
“La preghiera è come l’amore, supera gli spazi e la si può vivere dovunque, giacché dove tu ami l’Amore è là con te, e dunque Dio è in rapporto intimo con te, perché Dio è amore” (Carretto 121) . L’unica cosa necessaria per pregare, dunque, è amare. “L’amore è la più alta preghiera e ne è la pienezza” (Carretto 122)
Amare Gesù è fidarsi di Lui, è affidarsi a Lui, è lasciarsi condurre da Lui. Se uno ama così, prega tutto il giorno, anche quando è immerso nelle varie occupazioni. Proprio perché queste, da parte nostra, non sono che un modo di dire “sì” a ciò che Lui ci sta chiedendo. Tutto ciò, nonché diminuire, aumenterà il desiderio di cercare e procurarsi momenti di solitudine per stare a tu per tu con lui, in esclusiva e piena intimità.

Come pensare ad un preghiera vera se non si ha il desiderio intimo e profondo di incontrare il Signore e di stare con Lui? E come pensare che uno desideri davvero incontrare il Signore e poi trovi impossibile ricordarselo mentre lo sta servendo nel generoso compimento dei doveri del proprio stato, cioè nel compimento della sua volontà? E come dire che uno risponde alla proprosta di Dio e compie la sua volontà qualora impostasse la vita e la conducesse senza pensare a Lui?
Ma questo è un tema troppo serio per essere svolto in poche battute.


II. La “esperienza” di Dio

Ora vorrei porre un’altra domanda che, direttamente o indirettamente, sempre affiora quando si parla di intimità con di Dio. Il più delle volte la esperienza ci dice che Dio ci sfugge, per cui tutte le belle cose che sentiamo, che leggiamo, che diciamo, finiscono con l’apparire solo come belle teorie.
Cominciamo col guardare in faccia la realtà. E’ vero, Dio ci sfugge. E sappiamo anche perché: Dio è infinito e, perciò, del tutto aldilà delle nostre capacità di comprensione; Dio è purissimo spirito e, quindi, totalmente aldilà della nostra capacità di percezione che è sempre condizionata dal sensibile. Ecco, allora, la domanda che nasce spontanea. Come è possibile vivere l’intimità e avere esperienza di Lui? E, ciò supposto, come è possibile trasmettere tale esperienza?

 Non voglio entrare in complicate disquisizioni filosofico-teologiche, ma se non vogliamo rischiare di fare sempre un discorso astratto e inconcludente, credo necessario chiarire un poco almeno il senso di tale espressione incominciando dal concetto stesso di “esperienza”. Cosa vogliamo intendere con tale parola?
           
Cosa è esperienza

            E’ evidente che quando, nel caso nostro, parliamo di esperienza non la dobbiamo confondere con la “sperimentazione” scientifica, che è fatta di pesi, misure e calcoli matematici; una tale esperienza è limitata al mondo materiale. Ma non la possiamo nemmeno confondere, come spesso facciamo, con la reazione emotiva e sentimentale che si verifica in noi quando veniamo toccati o coinvolti in un certo evento. Anche questa esperienza è legata al mondo circoscritto della nostra sensibilità e comprensibilità. Ora Dio non cade sotto la nostra sensibilità, né può essere esaminato e compreso. Eppure quante volte, dopo aver partecipato a qualche cerimonia emozionante, abbiamo affermato di aver “sentito” Dio presente, di averlo “percepito” e “gustato”. Non ci rendiamo conto che abbiamo semplicemente confuso Dio con la nostra emozione, prodotta in noi dalla “bella” e “commovente” cerimonia. Al limite potremmo dire che abbiamo fatto “esperienza” di una bella cerimonia, ma è evidente che questa non è Dio

            Ma cosa è “esperienza” quando la riferiamo alla persona? Nel linguaggio corrente il termine esperienza rimanda ad una forma di “conoscenza” particolare che non deriva dalla riflessione teorica o dal patrimonio culturale di una determinata tradizione, ma dalla percezione e accoglimento immediato di una realtà con cui si entra in contatto. Quando si tratta di persone, normalmente questo si verifica attraverso la frequentazione, la conoscenza, la condivisione, la intimità.  Il “contatto” con l’altro produce una “impressione” che la coscienza rielabora ed a cui risponde.
            Pertanto, la esperienza non è  solo contatto con l’oggetto, ma anche e  soprattutto il modo personale come uno, a seguito del contatto, viene consapevolmente a rapportarsi nei riguardi dell’oggetto contattato. Si ha una esperienza in senso pieno quando uno coglie se stesso in relazione, in  rapporto, con una determinata realtà con la quale è venuto a contatto. Si tratta, in altri termini, del modo come uno sente dentro di sé l’oggetto e del modo come, in conseguenza, si pone di fronte ad esso.  Come una persona si pone di fronte ad un altra, a seguito di un “contatto” che si è verificato tra di loro.
  Ne segue che quanto più l’oggetto è presente alla coscienza tanto più lo si esperimenta. L’oggetto, a sua volta, si percepisce presente nella misura in cui produce qualcosa nel soggetto stesso. La esperienza comporta, dunque, una certa compenetrazione, un rapporto attivo tra la persona e la realtà che si esperimenta. Questo si attua attraverso un processo di interiorizzazione dell’oggetto esperimentato, e si percepisce come una specie di assunzione consapevole della sua presenza. 
Esperienza, in fondo, significa incontro personale, cioè della persona con qualcosa, con qualcuno, con se stesso.

La esperienza religiosa in genere è quella legata al mondo del sacro, inteso nel suo significato ampio. Nella religiosità naturale o primitiva, il sacro è concepito come tabù da cui guardarsi o a cui accostarsi per necessità e con circospezione. In questa religiosità il contatto con il mondo del sacro non è generato dalla fede, ma da una specie di fascino e di incantesimo che produce soggezione e timore. In essa il soggetto viene come soggiogato e, in un certo qual modo, estraniato da sé.

 Immanenza e trascendenza.

Ora riprendiamo la domanda. Come  possiamo parlare di “esperienza di Dio”, dal momento che dobbiamo sempre confessare che Egli, infinito ed eterno, trascende ed è sempre “oltre”  tutto quello che noi possiamo conoscere ed esperimentare? Dobbiamo considerare che proprio la sua infinita trascendenza richiama un altro aspetto essenziale del suo mistero, cioè la sua piena e totale immanenza. Proprio perché infinito Dio è nel cuore di tutto, e in ogni suo elemento: materia e spirito, energia e vita, cose, pensieri, desideri, affetti, aspirazioni.  Egli contiene tutto, è in tutto, conosce tutto, fa esistere e sostiene tutto. Ma lo fa con infinita discrezione, in modo da lasciarci liberi di agire, di desiderare, di cercare la verità e il bene, di vivere l’amore, di costruire la fraternità, di operare per la giustizia e la pace. Tutti valori che ci sentiamo dentro e a cui aspiriamo con movimento spontaneo, libero e autonomo, tanto da non renderci conto che tutto questo Lui lo sta operando in noi e con noi.  
 Quando  scopre la verità, quando vive l’amore, quando utilizza le leggi e le forze della natura per sviluppare la tecnica, favorire la produzione dei beni e rendere possibili nuove scoperte, l’uomo si sente unico protagonista. Non lo sfiora nemmeno l’idea che in tutte queste “conquiste” Dio lo precede, lo accompagna, lo sostiene producendo in lui l’essere e l’operare! Tale è l’infinita discrezione con cui Egli opera,  per lasciare all’uomo la libertà di scegliere e di agire, di ascoltare e di rispondere. Ed è proprio nell’uso di questa libertà che l’uomo, alla fine, si gioca la possibilità di sentire, incontrare e comunicare con Dio. Se egli compie rettamente queste cose sta in sintonia con il disegno di Dio, cioè con Dio, collabora, sta a contatto con Lui, anche se ancora non se ne accorge; se invece opera male, esce dal disegno di Dio, si allontana da lui, pone una barriera che gli impedisce il contatto (cfr quanto detto prima sulla necessità di una vita ordinata).

Pur operando tutto in tutti Dio rimane talmente nascosto da restare del tutto sconosciuto a chi non lo cerca con cuore sincero. Ciò è a tal punto vero che molti non si accorgono mai della sua presenza, né pensano mai a Lui; altri, poi, qualche volta ci pensano ma solo come idea astratta e avulsa dalla vita. Dio si nasconde così bene  nella creazione, nella incarnazione, nella storia, nei sacramenti, dentro di noi, che finiamo col dimenticarlo o imprigionarlo riducendolo alle nostre dimensioni. (Di qui la necessità di ricordarsi di lui e nutrire il desiderio di Lui).

E’, comunque, evidente  che la immanenza di Dio non la si può  identificare con una sua immagine. E nemmeno possiamo pensare alla sua attività in noi e con noi in analogia con la collaborazione umana in cui due si aiutano, si distribuiscono i compiti, si sostengono e si completano a vicenda.  Si tratta di due livelli totalmente diversi. Certo, Dio fonda tutto, è in tutto, muove e mantiene tutto (At 17,28). Ma non sostituisce tutto questo, anzi lo fa esistere con una precisa identità,  funzione e scopo specifico. Ogni cosa con la sua peculiarità. L’uomo con tutte le sue facoltà e, soprattutto, con la sua libertà. In e attraverso tutta la realtà esistente, la ragione coglie e in certo qual modo percepisce il mistero di Dio presente ed operante, ma intuisce anche che Dio è immensamente di più dell’opera che sta facendo. E’ questo che intendiamo quando diciamo che Dio è, allo stesso tempo, immanente e trascendente.

 Ma è la fede che, in modo particolare e più efficace aiuta a scoprire Dio al di dentro degli eventi che si stanno vivendo. La fede ci fa aderire a Qualcuno che è la Verità e il Bene. Tale “adesione”, man mano che cresce,  ce lo fa “conoscere” sempre meglio. E questo, a sua volta, ci aiuta a cogliere i semi o parti di “verità” che Egli sparge nella creazione e, soprattutto, ci comunica con la rivelazione. Siccome, poi, la Verità che Lui è non si spezzetta, ne segue che in ogni verità che ci partecipa Egli ci dona in qualche modo se stesso, e ci si fa conoscere meglio. Nemmeno la fede, però,  Lo potrà raggiungere se non andando oltre ciò che la mente sta scoprendo.
 Si torna sempre da capo: Dio anima e splende dentro il mondo, ma non è il mondo. Dio è un mistero che non si può misurare e nemmeno esplicitare e tematizzare. Questo, però, non significa affatto che sia assente o lontano da noi. Egli è trascendente e immanente allo stesso tempo.
 Se tutto è in Lui, e Lui è in tutto, allora è completamente sbagliato pensare che Dio,  perché assoluto e trascendente, sia fuori del mondo. Questo è il dio di Platone e di Aristotele, per i quali la divinità non può in nessun modo immischiarsi con l’umanità; un dio distante,  estraneo alla vita  e, dunque, incapace di toccare la persona e scaldare il cuore. Purtroppo questa visione di Dio è ancora presente anche tra cristiani che, pur dichiarandosi credenti, impostano e  conducono la esistenza prescindendo da Dio, salvo assolvere alcuni obblighi formali in occasioni particolari o ricorrere a Lui quando costretti dal bisogno e delusi da altri “salvatori”( come la medicina, la tecnica o, addirittura, la magia!).


Una esperienza “misteriosa”

Abbiamo sottolineato che Dio, non essendo un fenomeno del mondo,  non lo si può esperimentare come qualunque evento naturale: un tramonto, un dolore, un’amicizia, una disgrazia.  Abbiamo , però, anche ricordato che noi,  alla luce della ragione e della fede, sappiamo che  Egli è colui che sostiene e dà senso a tutto. Ora, questo ci porta ad una conclusione molto importante, e cioè che noi  possiamo “percepirlo” come tale, solo se entriamo nella realtà che siamo e che ci circonda; benché, infatti, Egli non sia tutto questo, è, però, tutto questo che, a modo suo, ce lo “dice”, ed è in tutto questo che si rende presente e ci si fa incontrare.
 Per questo, dicevamo, è necessario stabilire un autentico rapporto con se stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda. Bisogna scendere nella profondità della vita. Lì anche lo scienziato si trova di fronte al suo bisogno di conoscenza che non si appaga mai, perché più avanza e più vede nuovi orizzonti. Ed è costretto a chiedersi da dove viene e che senso ha questa apertura e proiezione verso l’infinito. Quando Dio emerge alla coscienza come sostegno e senso della realtà che si è e che si vive, se ne coglie la presenza e intuisce il mistero. Non che lo si possa definire, ma è certo che appare come colui che dà senso e pienezza alla nostra esistenza.
 Ora, percepirne la presenza  come mistero che ci permea e ci avvolge è già averne una certa esperienza.

Ma è necessario conoscersi, rientrare in sé, prendere sul serio se stessi e la propria vocazione, la propria missione e il proprio impegno nella storia, per costruirla nel lavoro, nella giustizia e nell’amore, come Dio vuole. Questo è fondamentale. Solo chi scende nella sua intimità riesce ad intuire  il “mistero” in cui è immerso e che lo alimenta; e solo chi vive in profondità la sua relazione con la realtà ed entra con senso di responsabilità nella storia da costruire, si incontra con il mistero del mondo, con ciò che lo fonda e gli dà senso. La superficialità e il disimpegno, (tale è spesso anche certa religiosità formalista)  rendono estranei a se stessi e alla verità della vita, incapaci di coglierne l’anima.
 Poiché tutto è parte di un disegno di amore di Dio, quando ci si occupa delle realtà della vita come Lui vuole, è con Lui che si entra in qualche modo in contatto. Nella fedeltà all’amore, nella passione per la giustizia, nell’impegno per la solidarietà e la fratellanza, nella ricerca indomita della convivenza pacifica, si entra in contatto e si arriva a “percepire” Dio.
 E’ evidente che in tutto questo la fede gioca un ruolo fondamentale.

 In ogni caso, la nostra esperienza di Dio in questa vita, fondamentalmente è fatta piuttosto di desiderio, di aspirazione profonda del cuore, di sofferenza. Una sofferenza che spesso viene causata, non tanto dalla sua assenza, quanto piuttosto dalla sua presenza, come ci insegna S. Giovanni della Croce quando parla delle purificazioni mistiche. La percezione acuta e sofferta che niente è Dio di tutto ciò che ci circonda e che noi possiamo raggiungere, anzi che è nulla senza di Lui, non costituisce un impedimento, ma è piuttosto un grande aiuto. Essa ci tira fuori dalle pastoie di questo mondo: ci fa liberi,  perché non si può restare prigionieri di ciò “che non è”. E ci fa più attenti, più sensibili, ci fa più assetati di Lui e più capaci di sentirLo. Conservare nelle vicissitudini della vita il desiderio di Dio, ricercarne la presenza, soffrire per il suo silenzio o la sua assenza: in questo consiste molte volte la esperienza di Lui, finché non vorrà farsi sentire in un modo che Egli solo conosce.

Non dovremmo mai dimenticare che è proprio sulla croce che si rivela Dio. Egli è  e sta là dove Cristo muore ed è rifiutato da tutti. La esperienza di Dio è consostanziale alla propria purificazione, fino alla morte del proprio egoismo. Ecco, allora, che arrivi alla esperienza di Dio quando dici  “sì” a Lui e gli fai spazio nella tua vita, e la vivi in pienezza quando rinunci totalmente a te stesso (morte!). Pertanto cominci a “conoscerlo” davvero, quando ti decidi ad acconsentire  alle proposte che Egli ti fa nell’intimo della coscienza e nel conseguente impegno a prendere sul serio la vita. Dio, infatti, si identifica con la sua volontà, e se stai nella sua volontà stai in Lui e, presto, te ne accorgerai. La stessa preghiera si dimostrerà vera quando suscita il desiderio sincero di entrare nella volontà di Dio e impegna a compierla. Se la preghiera, anche ripetuta, lascia la vita sempre allo stesso punto fa sorgere il sospetto che sia ridotta ad una pratica da sbrigare, ad un obbligo da assolvere e da cui liberarsi attraverso il materiale compimento. Ma se non c’è un vero desiderio di incontrare il Signore, di entrare nella sua intimità e di condividere i suoi disegni cioè di fare la sua volontà, si può ancora parlare di preghiera?

Poiché, poi,  la volontà di Dio è dinamismo di  amore e il comando supremo che tutti li riassume è quello di amare, sarà soprattutto vivendo nell’amore che si incontra e si esperimenta Dio. Egli, amandoci, ci fa amanti. E questo vuol dire che è nell’atto di amare che noi scopriamo Dio-Amore, lo sentiamo presente ed operante in noi. “Dio è Amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in Lui” (1 Gv 4,16). Più si entra nelle creature attraverso il dinamismo dell’amore, più Lo si scopre e Lo si sente presente, pur nella sua trascendenza. 

            Non si può, dunque, “conoscere” Dio e entrare in “contatto” con Lui se non seguendo la sua voce, lasciandosi guidare, cioè obbedendo. Ciò risulta chiarissimo anche dalla esperienza degli Apostoli i quali hanno imparato a conoscere Gesù e sono entrati nella sua intimità soltanto seguendolo. “Venite e vedete”; “vieni e seguimi”; “chiamò quelli che volle, ed essi andarono da Lui”. Ciò appare chiaramente anche dalla esperienza di S. Teresa che è entrata definitivamente nella intimità con il Signore quando si è definitivamente convertita a Lui.
Ne risulta che la obbedienza (il lasciarsi guidare dalla volontà di Dio)  è il principio della comprensibilità, senza di essa nessuno può percepire la presenza di Dio, comprendere la sua chiamata e realizzare un contatto personale con Lui. Essa è, in fondo, la fede in atto e la sua verità. Se è vero, come si esprime S. Ireneo, che “credere a Dio è fare la sua volontà” ne segue che chi non si sente impegnato a compierla nemmeno crede davvero. A questo punto, se nemmeno si crede in Lui, appare del tutto evidente come non abbia molto senso parlare di “esperienza di Dio”. L’esperienza, infatti, comporta la consapevolezza di una presenza. E non si può sentire come presente ciò che non esiste.

            Quanto detto sull’obbedienza non riguarda solo scelte fondamentali che danno un nuovo orientamento alla vita e pongono in un positivo atteggiamento di base. E’ chiaro che questo è indispensabile, non si può infatti “vedere” e “ascoltare” Dio se si è schiavi dell’orgoglio e dell’egoismo, si è cioè spiritualmente sordi e ciechi. Sappiamo che il bene si conosce per connaturalità. La sua scoperta, dunque, dipende soprattutto dalla sincerità della ricerca, dalla onestà e linearità della vita. La rettitudine morale garantisce  la comprensione e la certezza delle “parole” che Dio ci dice attraverso le varie mediazioni, più di ogni sottile riflessione, e ci permette di entrare in un misterioso contatto con Lui. E’ il cuore puro che fa vedere Dio. Lo ha detto Gesù.
            Insieme alla onestà morale è, poi, indispensabile la umiltà intellettuale. La pretesa di voler prima capire per poter credere blocca totalmente il cammino. Il bambino non imparerebbe mai l’educazione e gli stessi primi rudimenti di qualunque scienza se dovesse cominciare col capire. Egli impara la tavola pitagorica credendo a ciò che il maestro gli insegna. Egli, dunque, impara credendo. La fede non è contro, ma via alla conoscenza.
Questa compenetrazione tra fede e conoscenza viene dai teologi espressa con il noto assioma: “Credo ut intelligam, intelligo ut credam”. Credo per poter capire, e mi sforzo di capire per poter credere meglio. Ma si tratta di una fede e di una intelligenza che si ritrovano unificate in atteggiamenti e comportamenti vitali. “Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza” ( Gb 28,28). E’ questa la lezione che impartisce Giobbe, dall’alto della sua straordinaria e drammatica esperienza.

            Ma è necessario che la onestà intellettuale e morale di fondo  si traduca in scelte concrete anche nelle ordinarie situazioni dell’esistenza. Perché è proprio nella concretezza della vita quotidiana ( e quindi spesso nelle piccole cose) che si incontra Dio.
            Non è necessario pensare sempre a grandi gesti o decisioni. Per ritrovare il senso di Dio, la gioia della sua presenza e della sua compagnia, basta molte volte cominciare con le piccole cose. Talvolta ci si sente incontrati dal Signore perché ci si impone una piccola privazione in adesione al Vangelo, o perché ci si sforza di ricominciare a pregare con un po’ più di impegno, o perché si compie un gesto disinteressato e nascosto in favore del prossimo, o perché si ha il coraggio di chiedere e di offrire perdono. Dio si serve di piccole cose per accendere la luce che ce lo fa intravedere e per suscitare l’amore che ce lo fa sentire. Tutto ciò significa fedeltà alle “ispirazioni” cioè ai richiami interiori con cui lo Spirito Santo invita l’anima a un maggiore raccoglimento o alla pratica di una particolare virtù. Ciò, evidentemente, suppone una fondamentale attenzione per “sentire” la sua voce e una fondamentale generosità per “rispondere”  con prontezza. E’ così che ci si lascia prendere dalla sua luce e ci si lascia portare dalla sua volontà. Ed è così che lo si esperimenta presente nella propria vita. 
            E’ utile, comunque, ricordare che un’autentica esperienza di Dio comporta e nasce dalla fede, e non si identifica affatto con il “sentimento” religioso. Chi è provato da Dio e a Lui si abbandona, vive in Lui e lo partecipa in profondità, pur trovandosi in una aridità totale. L’esperienza di fede è l’atto della persona che, anche senza “sentire” niente, risponde di “sì” a Dio che la chiama e la interpella. In quel “sì” si scopre la presenza di Dio che entra in noi e noi in Lui. Quello che qualifica questa esperienza è il fatto che ciò che s’impone alla coscienza non è il mondo creato o la proiezione dei propri desideri, ma il mondo di Dio. Un mondo che supera e travolge tutte le nostre certezze, ma del quale cominciamo a sentirci parte , perché ci entriamo dentro.
           
Dalla Bibbia risulta chiaramente che non è l’uomo che cerca ed “esperimenta” Dio, ma è Dio che prende l’iniziativa e che si impone all’uomo; è Lui che lo mette alla prova, chiedendogli qualcosa, impegnandolo e mandandolo in missione. Non chiede il parere, tanto meno il permesso. Si pensi ad Abramo, a Mosè, agli Apostoli, a Paolo. Dio elegge, chiama e manda. L’incontro e la conseguente “esperienza” di questo Dio si verifica da parte dell’uomo con l’ingresso nella sua volontà attraverso la accettazione senza riserve della sua proposta. In effetti, si esperimenta una cosa quando la “si vive”, quando “ci si sta”. Si “conosce” Dio solo accogliendolo, come si conosce cosa vuol dire seguire Cristo solo seguendolo. Di fatto, come dicevamo, si realizza attraverso il superamento delle  proprie volontà e l’accantonamento dei propri progetti, per aderire e compiere la sua volontà. E ciò comporta, molto spesso, rinuncia, sacrificio, sofferenza.  E’ una esperienza di riflesso che vive nella rinuncia. Questa esperienza, percepita attraverso la fede, può essere profondissima, senza che per questo debba necessariamente essere accompagnata dal sentimento religioso che è normalmente presente in una religiosità ancora primitiva. Abbiamo già ricordato che essa non si identifica con la emozione sensibile né con la conoscenza teorica, è un qualcosa che emerge solo nella obbedienza e nel fiducioso abbandono, conseguenza del fatto che si è lasciato entrare Dio nella propria vita e che Egli ci rende partecipi della sua.

Chi descrive la sua esperienza di Dio non parla di una sua conoscenza intellettuale, ma della Sua presenza operativa in lui. E’ sempre un qualcosa che non si può esprimere a parole, e può essere valutato solo per l’effetto che produce in noi. Uno degli effetti più significativi è il fenomeno della conversione o miglioramento della vita. In effetti, come si può “contattare” Dio e non divenire migliori? Ti senti “toccato” e ne sei convinto perché ti senti cambiato. Ti senti più buono (Dio è bontà), ti senti più autentico (Dio è verità), ti senti più libero (Dio è libertà), ti senti più generoso (Dio è amore), ti senti più sereno e gioioso (Dio è beatitudine senza fine). Tu senti che Dio c’è e chi Egli è, proprio attraverso l’esperienza di bontà, verità, libertà, amore, gioia che dentro ti prende e ti trasforma.

E’ necessario, in ogni caso, tenere costantemente presente che  non siamo noi che possiamo raggiungere e sentire Dio. E’ lui che ci raggiunge, ci penetra, ci coglie. E’ lui che si fa sentire “toccandoci” con la sua luce e il suo amore e, con ciò, comunicandosi a noi. Una esperienza talvolta dolorosissima perché comporta una purificazione radicale, come ci insegnano i dottori mistici. A quei livelli noi possiamo solo lasciarlo fare. Però è chiaro che ci possiamo e dobbiamo disporre.
            La prima cosa da fare è quella di essere “attenti” a Lui, nella consapevolezza della sua presenza. Lui è presente come creatore in tutto, e come amico e padre nel nostro intimo. Nutrire questa consapevolezza vuol dire imparare a sentirselo amico e familiare, significa imparare a costruire un rapporto con Lui.
            Questa attenzione a Lui, come abbiamo appena detto, mette in condizione di percepirne le ispirazioni, di coglierne i gesti e, allo stesso tempo, rende disponibili e pronti a seguirne le indicazioni, e quindi a entrare nel suo mondo. Quando lo si cerca, ci si sforza di rivolgersi a Lui con la mente, il cuore, i desideri, Lui si fa “sentire”.

La profondità di tutto questo è, naturalmente, variabile. Ai vertici della mistica si arriva a sentirsi totalmente immersi e come trasformati nel mare infinito di luce e di amore che Dio è. Nella parte più intima e profonda di sé, l’anima sente che Dio le si comunica con immediatezza. Siamo ancora nell’ordine della fede, ma di una fede così penetrante, luminosa e gustosa da far intravedere già lo splendore della visione. I mistici parlano di fidanzamento e matrimonio spirituale. Qui l’esperienza di Dio viene sentita come totale assimilazione a Lui, al pari di un legno che, bruciando, diventa fuoco e non se ne distingue più. Un passo ulteriore e siamo… in Paradiso.  
</div>

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI

Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI: ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI Commissariato OCD “San Giuseppe” del Centro Italia ...

ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI


ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI

Commissariato OCD “San Giuseppe” del Centro Italia

Corso di formazione per i membri dei Consigli delle Fraternità OCDS toscane e romane

(Montecompatri 5-7 ottobre 2012)

    Al termine del nostro incontro di formazione, torniamo alle nostre fraternità con un impegno preciso su questi tre punti fondamentali:


1.      Dare il primo posto a Dio: Lui all’origine, Lui lo scopo, Lui il contenuto. Dunque vivere di Lui e vivere per Lui. Essere strumento, cioè mezzo, e luogo della sua gloria, cioè diventare santi.  Mettere a disposizione la vita: «Cosa vuoi fare di me?» (Santa Teresa di Gesù).

2.      La fraternità: «congregavit nos in unum Christi Amor». È Lui che ci unisce amandoci e noi rispondiamo amandoLo. Ciò che ci unisce tra di noi è il comune desiderio, la comune ricerca di Lui e l’uso dei mezzi o strumenti che ci aiutano ad andare a Lui. Uniti a Lui e in Lui saremo trascinati nella sua missione che è spendere la vita per la salvezza del mondo.

3.      La  testimonianza: la fede non si predica, si mostra. Si è testimoni con il proprio esistere: «Il testimone non ha bisogno di parlare, basta che esista» (Bergson). «La religione la si vive, non si propaganda, se la si vive, si propaganda da sè» (Gandhi). C’è un linguaggio universale che tutti capiscono: l’Amore. «Testimonianza più che militanza» (card. Scola).


Riprendiamo il nostro cammino sotto lo sguardo e la protezione della Vergine SS. Madre e Regina Nostra.

Letto e approvato in assemblea liturgica dai convegnisti.

                                                                                                                                         La Segreteria generale