lunedì 29 ottobre 2012
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Notiziario carmelitano 2012
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Notiziario carmelitano 2012: Notiziario carmelitano 2012
Notiziario carmelitano
Notiziario carmelitano
CORSO DI FORMAZIONE OCDS – MONTECOMPATRI 5 – 7 OTTOBRE 2012
DI: MARIA TERESA CRISTOFORI
Il Corso di formazione per i membri dei consigli delle Fraternità OCDS Toscane e Romane, ha avuto luogo dal 5 al 7 ottobre 2012 nella “Casa S. Silvestro” dei PP. Carmelitani di Montecompatri (RM). Il Delegato Provinciale OCDS del Commissariato Padre Arnaldo Pigna, relatore del Corso, ha aperto i lavori presentando l’esposizione dottrinale del tema centrale prescelto ”La vocazione carmelitana come chiamata ad una vita di intimità con Dio attraverso la via dell’orazione.” Rivolgendosi ai numerosi Carmelitani Secolari Intervenuti, P. Pigna ha delineato i punti salienti da porre alla base di ogni azione formativa rivolta a trasmettere l’essenza e i valori della vocazione carmelitana. Partendo sempre dalla convinzione che per formare occorre conoscere con chiarezza e profondità concetti e contenuti da comunicare, ne consegue che chi si accinge a formare deve obbligatoriamente formarsi, disponendosi ad accogliere, assimilare e soprattutto a vivere quanto si intende trasmettere agli altri. Senza mai dimenticare che le parole del formatore edificano poco se non scaturiscono dalla sua personale esperienza e testimonianza di vita, appare tuttavia evidente che, per poter comunicare ogni tipo di conoscenza, bisogna essere in grado di saperla trasmettere usando un linguaggio adeguato alla capacità di comprensione di coloro che ascoltano, mirando, soprattutto, a suscitare il loro interesse ed a coinvolgere la loro mente e il loro cuore.
LA VOCAZIONE CARMELITANA TERESIANA
La vocazione carmelitana teresiana parte dalla fondamentale scoperta che Dio non è lontano da me, sta accanto a me e mi vuole bene: tale consapevolezza richiede una risposta adeguata all’offerta di tale amore infinito e necessita, perciò, di tradursi in una scelta di vita che ponga al primo posto la relazione con Dio e l’incontro con Lui. Le Costituzioni OCDS nel delineare l’identità dei Carmelitani Scalzi Secolari al punto n° 3, li definiscono come membri della Chiesa chiamati a vivere “in ossequio di Gesù Cristo” attraverso “l’amicizia con Colui dal quale sappiamo essere amati”, servendo la Chiesa. Sotto la protezione di Nostra Signora del Monte Carmelo, e ispirandosi a Santa Teresa di Gesù, a San Giovanni della Croce e alla tradizione biblica del profeta Elia, essi cercano di approfondire gli impegni ricevuti nel battesimo. Particolarmente appropriato è il riferimento ad ELIA, poiché le radici dell’Ordine Carmelitano vanno ricercate proprio nell’antico profeta che verso l’anno 856 avanti Cristo sfida sul Monte Carmelo i profeti del falso Dio Baal e trionfa su di essi. Egli è animato da un profondo senso di Dio, avverte la sua prossimità : “Vive il Signore alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1) e riconosce in Lui un Essere vivo che agisce nella storia. Si strugge di zelo per il Signore Dio degli eserciti e, ponendosi al suo servizio, richiama, rimprovera, minaccia e castiga allo scopo di far riconoscere il primato del suo Signore. Quando, però, per l’ira di Gezabele vede fallire i suoi progetti, sconfitto e depresso si rifugia in una caverna sul monte Horeb, viene richiamato ad uscir fuori ed a mettersi al cospetto di Dio. Scopre così che il Signore non era nel vento forte, né nel fuoco, né nel terremoto, ma nella brezza di un vento leggero da percepire in una misteriosa e sottile voce di silenzio, che cambia la sua conoscenza di Dio e trasforma il suo carisma profetico in un carisma di ascolto e di adorazione. Molti secoli dopo, Santa Teresa di Gesù rivive e completa l’esperienza di Elia, al pari del profeta avverte la prossimità e il primato di Dio nella sua vita e, illuminata dalla rivelazione del Nuovo Testamento, scopre e sperimenta che Dio è Amore e dona ad ogni uomo la vocazione ad entrare in comunione con Lui. Si sente amata, accolta, desiderata ed instaura con il Signore un intimo rapporto di amicizia senza aver bisogno di uscire a ricercarlo, poiché acquisisce la certezza che il luogo dell’incontro si trova rientrando in se stessa, all’interno del suo essere, nella profondità ed al centro del suo cuore. Percepisce che tale rapporto trae la sua origine dall’esercizio della fede, della speranza, della carità e delle altre virtù umane e, alla luce della grazia divina, l’anima appare alla Santa di una bellezza straordinaria ed Ella, per descriverla, ricorre all’immagine di un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo fatto di molte stanze, alcune poste in alto, altre in basso ed altre ai lati. Al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, in cui si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima. S. Teresa comprende che l’anima, per entrare in relazione con il Signore, deve muovere da un atteggiamento di radicale umiltà, che l’aiuti a conoscere la verità di Dio e di se stessa seguendo un itinerario di perfezione che favorisca il suo intimo incontro di amicizia con Lui. Si rende conto che solo la preghiera rappresenta il privilegiato canale per entrare in sintonia con il Signore attraverso la mediazione di Cristo Gesù, per questo a coloro che intendono entrare in contatto con Dio all’interno di se stessi, ricorda che la porta per entrare in questo castello (vale a dire nell’interiorità dell’anima) è l’orazione e la meditazione. S. Teresa dà inizio alla riforma del suo Ordine e fonda in Spagna numerosi monasteri e conventi proprio per portare le anime ad intraprendere il cammino dell’orazione, da Lei chiaramente descritto nelle sue numerose opere. Partendo dalla sua esperienza interiore, diviene un’eccellente maestra di preghiera desiderosa di aiutare le anime ad instaurare un autentico rapporto di amicizia con Dio, per manifestargli tutto l’amore che merita e trarre da Lui la forza ed il coraggio per amare e fare del bene ai fratelli. Come carmelitani secolari, in grazia della vocazione ricevuta, siamo chiamati a trasmettere il carisma tipico della nostra S. Madre Teresa che è quello dell’orazione, avvertendone la connaturalità, come forza che deve spingerci, dal di dentro, a viverlo e propagandarlo. L’impegno ad entrare nella volontà di Dio, va coltivato nel rispetto dei seguenti punti fondamentali: a) senso profondo del primato di Dio nella nostra vita; b) ascolto contemplativo della divina Parola, partendo sempre dalla certezza di essere amati da Dio; c) zelo apostolico che miri a disporre l’esistenza a servizio degli altri; d) totalitarismo ascetico - spirituale come presupposto per l’incontro e l’ esperienza di Dio.
PRESENTAZIONE DELLA GRIGLIA – GUIDA PER IL LAVORO PERSONALE E DI GRUPPO
L’intervento del Prof. Don Beppe Roggia, finalizzato a preparare i corsisti ad avviare un produttivo ed efficace lavoro personale e di gruppo, si è rivelato ampiamente positivo e fruttuoso. La griglia da lui predisposta in riferimento all’esposizione dottrinale, ha presentato una formulazione di domande davvero coinvolgenti e capaci di suscitare interesse e scandagliare l’intimità più profonda di ciascuno dei presenti. La riflessione a livello personale, ha favorito l’incontro tra i membri dei quattro gruppi gestiti, ciascuno, da un conduttore e da un segretario, che regolando i tempi, hanno offerto a tutti l’opportunità di manifestare il proprio pensiero e la propria esperienza. All’interno di ogni gruppo si è subito stabilito un clima di fraterna amicizia, che ha consentito un sereno scambio di opinioni e di idee, tramite un rapporto di apertura e di reciprocità che ha arricchito tutti quanti. A conclusione del lavoro, il rappresentante di ogni gruppo ha esposto all’intera assemblea una breve sintesi del lavoro svolto, con interventi e richieste di chiarificazione, sia da parte di don Roggia, che da parte di alcuni membri presenti.
CONSIDERAZIONI FINALI
Questa breve relazione non può certamente contenere né esprimere tutti i contenuti e i doni di grazia che, senza dubbio, hanno arricchito il patrimonio spirituale dei vari partecipanti, ivi compresi alcuni Padri Assistenti OCDS Toscani e Romani, che ci hanno confortato ed accompagnato con il loro consiglio e la loro presenza. Un sentito ringraziamento va ai Rev.mi Relatori P. Arnaldo Pigna e Don Beppe Roggia, per la loro grande competenza e capacità di mettere a disposizione di tutti la loro cultura e dottrina spirituale, trasmettendola in modo accessibile, penetrante e veramente in grado di suscitare radicali cambiamenti nelle anime. Il nostro riconoscente “grazie”, va esteso al nostro Rev.mo Commissario Padre Gabriele Morra, che è stato tra noi ed ha presieduto la solenne Concelebrazione Eucaristica della giornata di sabato. Ci ha dimostrato e fatto sentire il suo interessamento, la sua vicinanza e ci ha rivolto parole di incoraggiamento, esortandoci a procedere sempre in avanti. La venuta in mezzo a noi del MRP Delegato Generale OCDS Padre Alzinir Francisco Debastiani, ha recato a tutti grande gioia e consolazione. Vedere un giovane e preparato religioso OCD, che stima ed apprezza l’Ordine Secolare, ci ha dato fiducia, sicurezza ed un rinnovato entusiasmo per un più roseo avvenire. Durante la Concelebrazione da lui presieduta nella giornata finale di domenica, ci ha ricordato che la nostra speranza è Cristo Risorto che, incarnandosi, ci ha dimostrato il suo amore, si è fatto uno di noi, nostro fratello ed è a Lui che dobbiamo chiedere un cuore di bambino, per poter avvertire e crescere alla sua presenza. Seguendo la via dell’orazione sull’esempio della B.V. Maria e dei nostri Santi, dobbiamo camminare nella volontà di Dio e conformare la nostra vita a Cristo Gesù, in tutte le ore della giornata. L’anno della FEDE ci aiuti a ravvivare, purificare, confermare e confessare il nostro Credo, con l’esercizio delle virtù, la perseveranza nella preghiera e l’approfondimento costante del nostro rapporto di amicizia e di intimità con Dio.
Le conoscenze acquisite e l’entusiasmo acceso in noi dalla frequenza di questo Corso, rendano più fecondo e fruttuoso il ritorno nelle nostre Fraternità, impegnandoci maggiormente a migliorarle, a renderle più vive e capaci di approfondire e testimoniare nella Chiesa il nostro carisma carmelitano teresiano.
Caprarola, 17/10/2012
Maria Teresa Cristofori
(Presidente provinciale romana OCDS)
sabato 27 ottobre 2012
martedì 9 ottobre 2012
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montec...
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montec...: Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici ) Montecompatri 5-7 ottobre 2012. Scopo del Convegno : come trasmettere i valo...
Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montecompatri 5-7 ottobre 2012.
Convegno OCDS ( per Consigli e Formatrici) Montecompatri 5-7 ottobre
2012.
Scopo del Convegno: come trasmettere i
valori della vocazione carmelitana.
Tema centrale: La vocazione carmelitana come chiamata ad una
vita di intimità con Dio, attraverso la via dell’orazione
“Vivere alla presenza e nel mistero
del Dio vivo” (Cost. OCDS 9c)
Procedimento:
La
parte dottrinale sarà svolta il 5 sera dal p. Pigna
Tutto
il giorno 6 sarà dedicato alla ricerca di una metodologia pratica di
trasmissione delle verità-valori concettualmente definiti, perché possano
essere ben compresi e, poi, tradotti in comportamenti. Il lavoro di questo
giorno sarà guidato dal professor D.
Beppe Roggia il quale ci aiuterà offrendoci una griglia-guida e formulando
delle domande a cui rispondere, prima individualmente, poi in gruppo ristretto,
poi in assemblea.
Il
giorno 7 mattina sarà tutto impiegato nel lavoro comunitario più
impegnativo: trarre delle conclusioni pratiche di cui possa utilmente servirsi
chi è incaricato della formazione.
Riflessioni
previe:
E’ evidente
che per “formare” bisogna innanzitutto conoscere ciò che si vuole comunicare e
trasmettere; ed è altrettanto evidente che per “formarsi” bisogna debitamente
accogliere, per poter poi assimilare e vivere, ciò che si è ricevuto. Il
processo completo, comunque, è questo: Conoscere, trasmettere, accogliere,
vivere. Dove il vivere costituisce il termine e lo scopo di tutto. Una formazione
che si fermi ad un accumulo di nozioni non è tale. Bisogna trasmettere in modo
che l’altro capisca, in modo di aiutarlo ad accogliere ciò che capisce, e in
modo di invogliarlo a vivere ciò che ha ricevuto.
Se è vero
che bisogna arrivare a coinvolgere la vita ne segue che non ci si può
accontentare di trasmettere una dottrina; tale dottrina deve essere, almeno in
qualche modo, già rivestita, “colorata” (resa viva ed attraente) dalla esperienza. Questo vuol dire che non
basta possedere una dottrina che traduce un valore in formule concettuali, se
allo stesso tempo non si trasmette anche un po’
la vita in cui questo valore si incarna ed esiste.
Ne segue che un processo
autentico di formazione non parte dalla dottrina ma dalla vita. Così abbiamo
questo ordine: Vivere, conoscere, trasmettere.
Dove il conoscere non è più solo teoria, ma è anche esperienza di vita.
Chi vuol trasmettere deve, dunque, anche vivere. Il formatore non è un megafono ma un
testimone. E’ necessario riscoprire il
“contemplata aliis tradere” che una volta era di una evidenza solare. Si
tratta di trasmettere la propria contemplazione, non la propria sapienza,
tantomeno la propria cultura. L’evangelista Giovanni direbbe “vi trasmettiamo
ciò che abbiamo visto e toccato”. Non serve sapere tutto della Chiesa e di
Cristo se poi non si crede nella Chiesa
e in Cristo, cioè se non si accoglie Cristo e non ci lascia da Lui prendere,
possedere e in Lui trasformare. Non serve conoscere tutta la dottrina teresiana
sul cammino della preghiera se poi questo cammino non lo si percorre. Si
rischia solo di trasmettere aridi concetti che non producono vita.
Ma,
dicevamo, è necessaria anche la disponibilità di chi accoglie. E questo
suppone, prima di tutto, che sia in condizione di farlo. Dato per scontato il
desiderio di ricevere, la
prima condizione è di avere dentro la capacità di “capire”, si deve cioè avere
lo spazio interiore sufficiente per poter “accogliere” dentro di sé. Il che
significa che nel proprio intimo ci deve essere qualcosa che sia in sintonia,
un qualcosa che corrisponda al valore
che si espone e si propone, un qualcosa che fa essere in un atteggiamento di
apertura e quasi di attesa, perché si “sente” (magari ancora confusamente) che
corrisponde ad una propria esigenza o aspirazione interiore. Tale apertura e
anelito interiore verso un determinato valore che orienta e dà senso alla vita
è dato dal dono della vocazione. E’ chiaro, allora, che se questa vocazione non
c’è, diventa molto problematico parlare della formazione a vivere la vocazione
carmelitana. Di qui la necessità assoluta di un autentico discernimento.
I.
La vocazione carmelitana
teresiana
Ora questa vocazione in che cosa
consiste? Lo possiamo vedere in modo emblematico in colei che l’ha pienamente incarnata, Teresa di Gesù
che, a sua volta, fa riferimento all’ispiratore primitivo di tutta la tradizione
carmelitana, Elia profeta. Sono le figure a cui possiamo idealmente guardare
per capire in qualche modo cosa vuol dire “vita di intimità con Dio”, e imparare
dalla loro esperienza la strada da percorrere.
Se guardiamo la loro storia ci
rendiamo immediatamente conto che forse il nostro modo di intendere le
espressioni “vita di intimità”, e “via dell’orazione” deve essere riveduto. Il
frequente ripeterle ha finito talvolta con il banalizzarle, svuotandole della
loro ricchezza e adattandole alla nostra mediocrità.
Non sono pochi che pensano che basta
andare a Messa, almeno i giorni festivi; dire il Rosario; partecipare alla
riunione mensile; dedicare un po’ di tempo alla meditazione, se troviamo il
tempo e ne siamo capaci, per considerarsi carmelitane/i, che vivono la loro
vocazione contemplativa. Ma questa è un’autentica illusione.
Alcune note della nostra vocazione le troviamo
già chiaramente delineate nel santo profeta Elia. Se guardiamo a lui la prima
cosa che notiamo è un profondo senso di
Dio. Il primo posto è del Signore. A Lui sempre il primato. Dalla sua
presenza la vita del profeta riceve senso, da Lui dipende, per Lui si spende, a Lui tende. Lui ci dice
che il vero senso di Dio si ha quando Egli è sentito come un essere vivo,
all’interno della nostra storia, presente nella trama della nostra vita. “Vive
il Signore, alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1). Non dunque un Essere lontano,
tanto meno una dottrina, un idea, un ideale, ma una Persona di cui io sento la
presenza, la imminenza e la incombenza. Una presenza viva, operante, determinante.
Da questo consegue necessariamente lo zelo bruciante per la sua gloria, cioè
il bisogno di gridare la sovranità di Dio e di lottare perché sia da tutti
riconosciuta. Lo zelo (1 Re 19,14) che spinge il profeta a scuotere gli altri
ha come unico motivo questo senso di Dio, che incombe su di lui con la sua
grandezza e maestà e gli impone di difenderne l’onore e promuoverne la gloria. L’unico
scopo che Elia si prefigge quando richiama, rimprovera, minaccia e castiga è di
far riconoscere il primato di Dio, perché gli si renda la lode e il culto
dovuto. L’uomo è suddito di questo Signore supremo, e come tale si deve
comportare. Chi si rifiuta va incontro alla rovina.
Inizialmente il Dio di Elia è il
Signore e padrone della storia che fa sentire la sua forza e la sua presenza annientando
i propri nemici. Entra così profondamente nella storia che, in un certo qual
modo, vi rimane rinchiuso. In effetti Elia crede di poterlo conoscere, capire
ed esaurire all’interno dello schema umano di comprensione della realtà e di
conduzione della storia. Un Dio che domina tutto e lo dimostra attraverso
fenomeni straordinari e interventi spettacolari. Elia si identifica con tutto
questo e si pone a pieno servizio, mettendoci tutto di sé. Servitore fedele,
lotta e mette a disposizione la vita per difendere il primato e promuovere la
gloria del suo Dio. La sua vittoria è quella del suo Dio. Non si rende conto
che nell’identificarsi con il programma di Dio, finisce con l’identificare Dio
con il progetto suo. E quando si vede frustrato nelle sue aspettative e si
sente sconfitto, cade nella totale depressione: è tutto finito, non resta che
morire.
A questo punto comincia un nuovo cammino che
lo porterà a scoprire meglio il suo Dio, non quello che lui aveva identificato
con i suoi concetti. I quaranta giorni di cammino nel deserto sono la
purificazione attraverso la quale deve passare. Sull’Horeb capisce chiaramente
che Dio non sta né nel fuoco, né nel terremoto, né nel turbine, cioè in niente
di ciò in cui invece aveva creduto di vederlo. Lo percepisce solo in un leggero
alito di vento, ma non riesce nemmeno a vederlo in volto, solo di spalle. Dio,
quello vero, non corrisponde a quello che si era sempre immaginato. A questo
punto può tornare indietro; non è vero che è tutto finito, c’è già pronto chi prende la sua eredità. Lui può uscire dalla
storia, sconfitto nei suoi programmi. Ma non è sconfitto Dio, che continua a
condurla a modo suo.
La presenza di Dio nella storia
è diversa da come la immaginava Elia, ed egli alla fine lo scopre non nel fuoco
divorante ma nella profonda solitudine da cui emerge una parola di silenzio. Il
momento culminante della esperienza di Dio fatta da Elia non è il monte del
sacrificio quando Dio si mostra presente ed operante nel fuoco che brucia
tutto, ma sul monte Horeb nel leggero alito di vento. E’ così che gli si svela
il mistero di Dio; ma un mistero che rimane … misterioso. Chi è questo Dio per
Elia profeta? E’ uno che lo ha conquistato, uno per il quale ha consumato la
vita, uno che, comunque, non è riuscito a vedere e a conoscere fino in fondo.
Siamo ancora nel Vecchio Testamento.
L’esperienza di Teresa ricalca,
in qualche modo, e poi completa e supera l’esperienza del Profeta. Anche Teresa
sente forte il primato di Dio. Già da bambina intuisce che la vita è data per
andare ad incontrarlo. E presto capisce che è nel silenzio, non nel tumulto del
fare, che lo incontra. In un certo senso lei parte da dove Elia era arrivato. E
la “caverna” rivela tutto il suo simbolismo: non si tratta di un luogo
materiale, ma del nucleo più profondo del proprio essere, il centro del cuore.
E’ lì che Dio si trova, ed è lì che aspetta per farsi incontrare e conoscere.
Dio entra nel nostro cuore per introdurci nel
suo, cioè per stabilire con noi una profonda intimità, uno scambio di vita. Un
reciproco e intimo rapporto di amicizia, dirà Teresa. Essa scopre ed
esperimenta fino in fondo il contenuto centrale della rivelazione del Nuovo
Testamento: Dio è amore e nel comunicare con noi non può fare altro che darsi
come amore. Ciò vuol dire che solo in un contesto e in un rapporto di amore si
conosce e si incontra Dio. Dio si fa presente amando e non accetta altra
presenza di risposta se non la presenza dell’amore. Questo è il contenuto
centrale della esperienza di Teresa che ha costituito il filo portante della spiritualità
teresiana lungo la storia, da s. Giovani della croce, a s. Teresa Margherita
Redi, a S. Teresa di Gesù bambino, a Elisabetta della Trinità, a s. Teresa de
los Andes.
Per Teresa, alla luce del
mistero di nostro Signore Gesù Cristo, il Dio di Elia acquista un volto ben
preciso, quello dell’Amore. Non un Dio, dunque, che domina e incute timore con
la sua maestà e potenza, ma un Dio che seduce, che chiama, che avvince e
trascina in una sublime vicenda di comunione sponsale.
Di conseguenza nasce in Teresa
anche un’altra fortissima esigenza. Poiché sposa è pienamente coinvolta nel
destino e nella missione del suo Sposo, ella non può vivere che per la sua
gloria, non può operare che per offrirgli cooperazione nell’opera della
salvezza. Amarlo e farlo amare, sarà il suo vivere. Lo “zelo zelatus sum” del
guerriero Elia, diviene “meum zelabis honorem” nella sposa Teresa. E’ la piena
comunione dell’amore che fa crescere uno zelo apostolico sconfinato, che deriva,
si sa, sempre dallo stesso cuore: il Cuore di Dio! Se l'anima entra nel Cuore
di Dio attraverso l'intimità dell'amicizia, diventa partecipe di tutte le sollecitudini del Signore.
“Il Signore desidera la salvezza di tutti ed ecco l'anima trascinata a
volere tutti salvi. Il Signore, per salvare tutti, manda il suo Unigenito
Figlio, lo offre in olocausto e lo distribuisce in nutrimento incessante.
L'anima che si trova trascinata negli stessi desideri, nelle stesse aspirazioni
di fare della propria vita un olocausto, perché il regno di Dio si compia,
perché le anime conoscano il Signore, perché la Chiesa possa assolvere la sua
missione, è, così, presa nel turbine santo di Dio-Amore. Ecco una splendida
pagina del card Ballestrero:
“Lo zelo
apostolico, l'impegno apostolico nasce da questa interiore carità. E se
qualche volta le notizie, le informazioni, i dati della vita risultano
documenti di quanto sia necessario pregare perché il Signore sia conosciuto e
amato, di quanto sia necessario espiare perché il Signore è tradito e offeso,
di quanto occorra offrire perché il Signore sia glorificato e riconosciuto, ecco
che le anime, di fronte a queste informazioni, notizie, esperienze,
s'accendono non tanto per la forza dell'informazione, ma perché l'informazione
mette allo scoperto ciò che c'è nel profondo per l'esperienza della propria
intimità con il Signore.
“Quando santa Teresa di Gesù
(C 1, 2) si sentiva sconvolta, sentendo le notizie o dell'America appena
scoperta o del nord Europa in preda alla ribellione di Lutero, non attingeva il
fervore e la passione del suo zelo per la difesa di Gesù, per la difesa dei
tabernacoli, per la gloria del Padre tanto dai pettegolezzi delle informazioni;
piuttosto l'informazione colta a volo, puramente passeggera, metteva in lei
allo scoperto tutta una ricchezza di segreti divini che dal Cuore di Dio,
attraverso la contemplazione e l'orazione, traboccavano in lei.
“Questo dev'essere anche il
modo, il tipo dello zelo dell'anima contemplativa, che non ha bisogno d'andare
ad alimentare il suo fervore d'immolazione, di preghiera, di espiazione con il
cumulo delle notizie, ma piuttosto con l'esperienza della fede di Cristo, con
l'esperienza della sofferenza e dell'olocausto del Signore, e con l'esperienza
dei disegni di Dio. Allora lo zelo non distrae, al contrario: nutre e fa
passare dalla solitudine della preghiera all'impegno della generosità,
all'operosità del sacrificio, con un'assoluta libertà interiore e un'assoluta
spontaneità. E l'anima più si dà, più si darebbe, più si consuma e più si
consumerebbe in questo crogiuolo della carità che è, in fondo, il segno
definitivo che la sua orazione è autentica e che la sua amicizia con il Signore
è più di quella superficiale simpatia che è affidata soltanto ai punti
esclamativi.
“La nostra vita di orazione,
allora, diventa crogiuolo e fornace della nostra vita di carità, e la nostra
vita di carità, continuo sforzo umile ma volenteroso da parte nostra per
introdurci sempre più profondamente nella santa contemplazione. Si deve
arrivare a questo: a passare dall'ebbrezza dell'amore di Dio allo zelo
dell'amore per i fratelli, sperimentando che l'una e l'altro sono la stessa
cosa, ricordando che per vivere di questi estremi - chiamiamoli quasi beatifici
- della carità, bisogna saper portare quotidianamente quel più umile peso della
carità spicciola, anonima, senza risonanze, non degna di essere scritta sui
nostri e sugli altrui diari, fatta di piccole e continue cose, nelle quali la
norma suprema è questa: non cercare mai
se stessi, ma cercare sempre il Signore per dargli gloria, per dargli
onore, per renderlo consolato. In questo senso l’esercizio della carità, in
tutte le sue forme, ha sempre una grandissima importanza per la nostra vita di
orazione” (L’Eterno progetto p. 24-236)
Tutta la vita di Teresa è una
dimostrazione che la passione per Cristo è anche passione per l’umanità; due
aspetti indissolubili dello stesso amore. Come perdere di vista Cristo sarebbe
infedeltà, così sarebbe anche infedeltà se si perdesse di vista l’umanità da
salvare e da portare a Gesù. La clausura più stretta non è isolamento, ma un
modo di relazionarsi più intimamente con Dio, per entrare nel suo cuore e
acquistarne le dimensioni
Per quanto riguarda la dedizione
al Signore, Teresa riprende decisamente il programma di Elia. Se il Signore è
Dio non si può zoppicare un po’ di qua e un po’ di là, bisogna seguirlo in
maniera rettilinea e totale. Tendere a lui senza compromessi, giravolte e
tortuosità. Bisogna determinarsi per Lui senza condizioni perché solo Dio è
tutto, e solo Dio basta. Sappiamo come Giovanni della croce (con la famosa
ascesi del tutto e del nulla,1S 13,11-13) darà a questa esigenza fondamentale
dell’anima teresiana, una formulazione ben precisa, addirittura drastica. Chi
riceve la vocazione carmelitana non può ignorare e non può trascurare questa
dimensione.
Appare chiaro, allora, il nesso
intrinseco che esiste nella nostra vocazione, tra il senso profondo del primato e della trascendenza di Dio, l’atteggiamento contemplativo di ascolto
e di abbandono che ne deriva, lo zelo
apostolico che mette a disposizione tutta l’esistenza, il totalitarismo ascetico e spirituale che
la caratterizza. Sono valori inseparabili della nostra vocazione.
Essere in intimità vuol dire
reciprocità di vita, vuol dire comunicare, condividere, conoscere, possedere e
appartenere; vuol dire vivere, sentire, esperimentare la comunione totale di
vita, di destino e di missione.
Come Teresa è arrivata a questa
intima comunione personale con Dio? Lo sappiamo, attraverso la via
dell’orazione. Questo è un elemento che caratterizza fortemente la nostra vocazione
e merita di essere trattato in modo specifico, in un altro eventuale convegno.
Però almeno una cosa sento il dovere di dirla. Quando si parla dell’orazione
come via, non si deve pensare ad un cammino difficile che bisogna faticosamente
percorrere fino in fondo, per poter, solo al termine, incontrare intimamente il
Signore. Si tratta di un cammino che inizia già con un certo rapporto di
intimità, le cui tappe progressive sono già un approfondimento di detta
intimità, al punto che camminare nella via dell’orazione vuol dire progredire
nella vita di intimità con il Signore. Fare orazione, dunque, è già stabilire
un rapporto personale, e camminare nella via dell’orazione vuol dire
semplicemente approfondirlo. L’inizio del cammino e il suo progresso, dunque, è
dato dal grado di intimità che si stabilisce. Se questa intimità non c’è, vuol
dire che non si sta nel cammino, vuol dire che non si prega davvero. E questo
potrebbe significare che non si vive una autentica vita cristiana che, se è
tale, non può non essere teologale cioè rapportata a Dio. Un rapporto che è
originato dalla fede che ce lo fa conoscere, dalla speranza che ce lo fa
desiderare, dalla carità che ce lo fa possedere. Ma questa è, appunto, la
preghiera teresiana.. Per Teresa, infatti, la preghiera consiste nello
stabilire un rapporto di amicizia, a tu per tu, che deriva dal fatto di sapersi
(attraverso la fede) e di sentirsi ( attraverso la carità) amati (Vta 8,5).
Il punto allora è vedere come
arrivare a mettersi in questa via, cioè a fare orazione. Dire che per entrare
in comunione con Dio bisogna pregare rischia di essere una tautologia. Bisogna
farsi una domanda più a monte: cosa bisogna fare per stabilire questo rapporto,
cioè per mettersi in condizione di pregare. Per S. Teresa la risposta è chiara:
una vita orientata verso Dio e ordinata attraverso l’esercizio delle virtù e il
compimento dei doveri del proprio stato. In specie ella raccomanda la povertà,
il distacco, l’umiltà, l’amore fraterno. E’ la vita ordinata che permette di
entrare e, poi, progredire nel cammino
della orazione teresiana. A sua volta, poi, sarà la orazione cioè la comunione
sempre più piena con Gesù che, assimilando a Lui, favorisce e permette una vita
sempre più simile alla sua.
Ma il punto di partenza è la vita. Per poter
pregare bisogna decidersi per Dio e sceglierlo decisamente, senza compromessi e
senza condizioni. Se non c’è questo, niente intimità. Dio ci prende sul serio e
vuole essere preso sul serio. La vera difficoltà della preghiera non sono le
distrazioni (come sempre diciamo) ma la incoerenza della vita. D’altra parte,
la stragrande maggioranza di queste distrazioni è la conseguenza diretta di
questa incoerenza, di una vita non ordinata.
Alla preghiera ci portiamo noi
stessi, cioè la nostra vita. In essa dunque non si può avere un rapporto
filiale con il Padre e di amicizia con
Gesù se non si vive da figli e da amici. Non significa evidentemente che
bisogna essere perfetti, ma che la vita sia sostanzialmente orientata a Lui e
che si nutra il desiderio di incontrarlo, questo sì. Diversamente gli stessi
atti di preghiera saranno semplici doveri da cui liberarsi attraverso
l’adempimento. E questo tutto può essere fuorché un appuntamento tra amici che
si vogliono bene, cioè tutto può essere fuorché orazione teresiana.
A questo punto nasce sempre il
solito problema del tempo. Non lo troviamo mai! Alla base di soluzione di ogni
problema sta il desiderio di pregare. Si tratta di vedere se esso c’è davvero.
E’ certo, infatti, che voler pregare è già in qualche modo pregare e che il
“desiderio sostituisce la preghiera se… appena possibile diventa preghiera”. In
fondo è tutto questione di amore, la preghiera infatti è un modo di vivere e di
esprimere l’amore. E quando si ama si cerca la compagnia della persona amata e
si desidera assecondarla nei suoi desideri. L’amore, quando c’è, si vede,
diventa ricerca e diventa servizio. Se questo è il punto, allora il problema
non sta nel vedere come pregare quando si è occupati. Quando l’amore c’è, esso
non scompare nelle occupazioni, e alla minima opportunità si fa sentire. Non si tratta, dunque, di chiedersi se si ha
tempo per poter pregare, ma se si ha tempo per amare.
“La
preghiera è come l’amore, supera gli spazi e la si può vivere dovunque, giacché
dove tu ami l’Amore è là con te, e dunque Dio è in rapporto intimo con te,
perché Dio è amore” (Carretto 121) . L’unica cosa necessaria per pregare,
dunque, è amare. “L’amore è la più alta preghiera e ne è la pienezza” (Carretto
122)
Amare
Gesù è fidarsi di Lui, è affidarsi a Lui, è lasciarsi condurre da Lui. Se uno
ama così, prega tutto il giorno, anche quando è immerso nelle varie
occupazioni. Proprio perché queste, da parte nostra, non sono che un modo di
dire “sì” a ciò che Lui ci sta chiedendo. Tutto ciò, nonché diminuire,
aumenterà il desiderio di cercare e procurarsi momenti di solitudine per stare
a tu per tu con lui, in esclusiva e piena intimità.
Come
pensare ad un preghiera vera se non si ha il desiderio intimo e profondo di
incontrare il Signore e di stare con Lui? E come pensare che uno desideri
davvero incontrare il Signore e poi trovi impossibile ricordarselo mentre lo
sta servendo nel generoso compimento dei doveri del proprio stato, cioè nel compimento
della sua volontà? E come dire che uno risponde alla proprosta di Dio e compie
la sua volontà qualora impostasse la vita e la conducesse senza pensare a Lui?
Ma questo è un tema troppo serio
per essere svolto in poche battute.
II. La “esperienza” di Dio
Ora vorrei porre un’altra
domanda che, direttamente o indirettamente, sempre affiora quando si parla di
intimità con di Dio. Il più delle volte la esperienza ci dice che Dio ci sfugge,
per cui tutte le belle cose che sentiamo, che leggiamo, che diciamo, finiscono
con l’apparire solo come belle teorie.
Cominciamo col guardare in
faccia la realtà. E’ vero, Dio ci sfugge. E sappiamo anche perché: Dio è
infinito e, perciò, del tutto aldilà delle nostre capacità di comprensione; Dio
è purissimo spirito e, quindi, totalmente aldilà della nostra capacità di
percezione che è sempre condizionata dal sensibile. Ecco, allora, la domanda
che nasce spontanea. Come è possibile vivere l’intimità e avere esperienza di Lui?
E, ciò supposto, come è possibile trasmettere tale esperienza?
Non voglio entrare in complicate disquisizioni
filosofico-teologiche, ma se non vogliamo rischiare di fare sempre un discorso
astratto e inconcludente, credo necessario chiarire un poco almeno il senso di
tale espressione incominciando dal concetto stesso di “esperienza”. Cosa
vogliamo intendere con tale parola?
Cosa è
esperienza
E’
evidente che quando, nel caso nostro, parliamo di esperienza non la dobbiamo
confondere con la “sperimentazione” scientifica, che è fatta di pesi, misure e calcoli
matematici; una tale esperienza è limitata al mondo materiale. Ma non la
possiamo nemmeno confondere, come spesso facciamo, con la reazione emotiva e
sentimentale che si verifica in noi quando veniamo toccati o coinvolti in un
certo evento. Anche questa esperienza è legata al mondo circoscritto della
nostra sensibilità e comprensibilità. Ora Dio non cade sotto la nostra
sensibilità, né può essere esaminato e compreso. Eppure quante volte, dopo aver
partecipato a qualche cerimonia emozionante, abbiamo affermato di aver
“sentito” Dio presente, di averlo “percepito” e “gustato”. Non ci rendiamo conto
che abbiamo semplicemente confuso Dio con la nostra emozione, prodotta in noi
dalla “bella” e “commovente” cerimonia. Al limite potremmo dire che abbiamo
fatto “esperienza” di una bella cerimonia, ma è evidente che questa non è Dio
Ma
cosa è “esperienza” quando la riferiamo alla persona? Nel linguaggio corrente
il termine esperienza rimanda ad una forma di “conoscenza” particolare che non
deriva dalla riflessione teorica o dal patrimonio culturale di una determinata tradizione,
ma dalla percezione e accoglimento immediato di una realtà con cui si entra in
contatto. Quando si tratta di persone, normalmente questo si verifica
attraverso la frequentazione, la conoscenza, la condivisione, la intimità. Il “contatto” con l’altro produce una
“impressione” che la coscienza rielabora ed a cui risponde.
Pertanto,
la esperienza non è solo contatto con
l’oggetto, ma anche e soprattutto il
modo personale come uno, a seguito del contatto, viene consapevolmente a
rapportarsi nei riguardi dell’oggetto contattato. Si ha una esperienza in senso
pieno quando uno coglie se stesso in relazione, in rapporto, con una determinata realtà con la
quale è venuto a contatto. Si tratta, in altri termini, del modo come uno sente
dentro di sé l’oggetto e del modo come, in conseguenza, si pone di fronte ad
esso. Come una persona si pone di
fronte ad un altra, a seguito di un “contatto” che si è verificato tra di loro.
Ne segue che quanto più l’oggetto è presente
alla coscienza tanto più lo si esperimenta. L’oggetto, a sua volta, si
percepisce presente nella misura in cui produce qualcosa nel soggetto stesso.
La esperienza comporta, dunque, una certa compenetrazione, un rapporto attivo
tra la persona e la realtà che si esperimenta. Questo si attua attraverso un
processo di interiorizzazione dell’oggetto esperimentato, e si percepisce come
una specie di assunzione consapevole della sua presenza.
Esperienza, in fondo, significa incontro personale,
cioè della persona con qualcosa, con qualcuno, con se stesso.
La esperienza religiosa in genere è quella legata al
mondo del sacro, inteso nel suo significato ampio. Nella religiosità naturale o
primitiva, il sacro è concepito come tabù da cui guardarsi o a cui accostarsi
per necessità e con circospezione. In questa religiosità il contatto con il
mondo del sacro non è generato dalla fede, ma da una specie di fascino e di
incantesimo che produce soggezione e timore. In essa il soggetto viene come
soggiogato e, in un certo qual modo, estraniato da sé.
Immanenza e
trascendenza.
Ora riprendiamo
la domanda. Come possiamo parlare di
“esperienza di Dio”, dal momento che dobbiamo sempre confessare che Egli,
infinito ed eterno, trascende ed è sempre “oltre” tutto quello che noi possiamo conoscere ed
esperimentare? Dobbiamo considerare che proprio la sua infinita trascendenza
richiama un altro aspetto essenziale del suo mistero, cioè la sua piena e
totale immanenza. Proprio perché infinito Dio è nel cuore di tutto, e in ogni
suo elemento: materia e spirito, energia e vita, cose, pensieri, desideri,
affetti, aspirazioni. Egli contiene
tutto, è in tutto, conosce tutto, fa esistere e sostiene tutto. Ma lo fa con
infinita discrezione, in modo da lasciarci liberi di agire, di desiderare, di
cercare la verità e il bene, di vivere l’amore, di costruire la fraternità, di
operare per la giustizia e la pace. Tutti valori che ci sentiamo dentro e a cui
aspiriamo con movimento spontaneo, libero e autonomo, tanto da non renderci
conto che tutto questo Lui lo sta operando in noi e con noi.
Quando
scopre la verità, quando vive l’amore, quando utilizza le leggi e le
forze della natura per sviluppare la tecnica, favorire la produzione dei beni e
rendere possibili nuove scoperte, l’uomo si sente unico protagonista. Non lo sfiora
nemmeno l’idea che in tutte queste “conquiste” Dio lo precede, lo accompagna,
lo sostiene producendo in lui l’essere e l’operare! Tale è l’infinita
discrezione con cui Egli opera, per
lasciare all’uomo la libertà di scegliere e di agire, di ascoltare e di
rispondere. Ed è proprio nell’uso di
questa libertà che l’uomo, alla fine, si gioca la possibilità di sentire,
incontrare e comunicare con Dio. Se egli compie rettamente queste cose sta
in sintonia con il disegno di Dio, cioè con Dio, collabora, sta a contatto con
Lui, anche se ancora non se ne accorge; se invece opera male, esce dal disegno
di Dio, si allontana da lui, pone una barriera che gli impedisce il contatto
(cfr quanto detto prima sulla necessità di una vita ordinata).
Pur operando
tutto in tutti Dio rimane talmente nascosto da restare del tutto sconosciuto a
chi non lo cerca con cuore sincero. Ciò è a tal punto vero che molti non si
accorgono mai della sua presenza, né pensano mai a Lui; altri, poi, qualche
volta ci pensano ma solo come idea astratta e avulsa dalla vita. Dio si
nasconde così bene nella creazione,
nella incarnazione, nella storia, nei sacramenti, dentro di noi, che finiamo
col dimenticarlo o imprigionarlo riducendolo alle nostre dimensioni. (Di qui la
necessità di ricordarsi di lui e nutrire il desiderio di Lui).
E’, comunque,
evidente che la immanenza di Dio non la
si può identificare con una sua
immagine. E nemmeno possiamo pensare alla sua attività in noi e con noi in
analogia con la collaborazione umana in cui due si aiutano, si distribuiscono i
compiti, si sostengono e si completano a vicenda. Si tratta di due livelli totalmente diversi.
Certo, Dio fonda tutto, è in tutto, muove e mantiene tutto (At 17,28). Ma non
sostituisce tutto questo, anzi lo fa esistere con una precisa identità, funzione e scopo specifico. Ogni cosa con la
sua peculiarità. L’uomo con tutte le sue facoltà e, soprattutto, con la sua
libertà. In e attraverso tutta la realtà
esistente, la ragione coglie e in certo qual modo percepisce il mistero di Dio
presente ed operante, ma intuisce anche che Dio è immensamente di più
dell’opera che sta facendo. E’ questo che intendiamo quando diciamo che Dio è,
allo stesso tempo, immanente e trascendente.
Ma è la fede che, in modo particolare e più
efficace aiuta a scoprire Dio al di dentro degli eventi che si stanno vivendo.
La fede ci fa aderire a Qualcuno che è la Verità e il Bene. Tale “adesione”,
man mano che cresce, ce lo fa
“conoscere” sempre meglio. E questo, a sua volta, ci aiuta a cogliere i semi o
parti di “verità” che Egli sparge nella creazione e, soprattutto, ci comunica
con la rivelazione. Siccome, poi, la Verità che Lui è non si spezzetta, ne
segue che in ogni verità che ci partecipa Egli ci dona in qualche modo se
stesso, e ci si fa conoscere meglio. Nemmeno la fede, però, Lo potrà raggiungere se non andando oltre ciò
che la mente sta scoprendo.
Si torna sempre da capo: Dio anima e splende
dentro il mondo, ma non è il mondo. Dio è un mistero che non si può misurare e
nemmeno esplicitare e tematizzare. Questo, però, non significa affatto che sia
assente o lontano da noi. Egli è trascendente e immanente allo stesso tempo.
Se tutto è in Lui, e Lui è in tutto, allora è
completamente sbagliato pensare che Dio,
perché assoluto e trascendente, sia fuori del mondo. Questo è il dio di
Platone e di Aristotele, per i quali la divinità non può in nessun modo
immischiarsi con l’umanità; un dio distante,
estraneo alla vita e, dunque,
incapace di toccare la persona e scaldare il cuore. Purtroppo questa visione di
Dio è ancora presente anche tra cristiani che, pur dichiarandosi credenti,
impostano e conducono la esistenza
prescindendo da Dio, salvo assolvere alcuni obblighi formali in occasioni
particolari o ricorrere a Lui quando costretti dal bisogno e delusi da altri
“salvatori”( come la medicina, la tecnica o, addirittura, la magia!).
Una esperienza “misteriosa”
Abbiamo
sottolineato che Dio, non essendo un fenomeno del mondo, non lo si può esperimentare come qualunque
evento naturale: un tramonto, un dolore, un’amicizia, una disgrazia. Abbiamo , però, anche ricordato che noi, alla luce della ragione e della fede, sappiamo
che Egli è colui che sostiene e dà senso
a tutto. Ora, questo ci porta ad una conclusione molto importante, e cioè che noi
possiamo “percepirlo” come tale, solo se entriamo nella realtà che siamo
e che ci circonda; benché, infatti, Egli non sia tutto questo, è, però,
tutto questo che, a modo suo, ce lo “dice”, ed è in tutto questo che si rende
presente e ci si fa incontrare.
Per questo, dicevamo, è necessario stabilire
un autentico rapporto con se stessi, con gli altri, con il mondo che ci
circonda. Bisogna scendere nella profondità della vita. Lì anche lo scienziato
si trova di fronte al suo bisogno di conoscenza che non si appaga mai, perché
più avanza e più vede nuovi orizzonti. Ed è costretto a chiedersi da dove viene
e che senso ha questa apertura e proiezione verso l’infinito. Quando Dio emerge
alla coscienza come sostegno e senso della realtà che si è e che si vive, se ne
coglie la presenza e intuisce il mistero. Non che lo si possa definire, ma è
certo che appare come colui che dà senso e pienezza alla nostra esistenza.
Ora, percepirne
la presenza come mistero che ci permea e
ci avvolge è già averne una certa esperienza.
Ma è necessario
conoscersi, rientrare in sé, prendere sul serio se stessi e la propria
vocazione, la propria missione e il proprio impegno nella storia, per
costruirla nel lavoro, nella giustizia e nell’amore, come Dio vuole. Questo è fondamentale. Solo chi scende
nella sua intimità riesce ad intuire il
“mistero” in cui è immerso e che lo alimenta; e solo chi vive in profondità la
sua relazione con la realtà ed entra con senso di responsabilità nella storia
da costruire, si incontra con il mistero del mondo, con ciò che lo fonda e gli
dà senso. La superficialità e il disimpegno, (tale è spesso anche certa
religiosità formalista) rendono estranei
a se stessi e alla verità della vita, incapaci di coglierne l’anima.
Poiché tutto è parte di un disegno di amore di
Dio, quando ci si occupa delle realtà della vita come Lui vuole, è con Lui che
si entra in qualche modo in contatto. Nella
fedeltà all’amore, nella passione per la giustizia, nell’impegno per la
solidarietà e la fratellanza, nella ricerca indomita della convivenza pacifica,
si entra in contatto e si arriva a “percepire” Dio.
E’ evidente che in tutto questo la fede gioca un ruolo
fondamentale.
In ogni caso, la nostra esperienza di Dio in
questa vita, fondamentalmente è fatta piuttosto di desiderio, di aspirazione
profonda del cuore, di sofferenza. Una sofferenza che spesso viene causata, non
tanto dalla sua assenza, quanto piuttosto dalla sua presenza, come ci insegna
S. Giovanni della Croce quando parla delle purificazioni mistiche. La
percezione acuta e sofferta che niente è Dio di tutto ciò che ci circonda e che
noi possiamo raggiungere, anzi che è nulla senza di Lui, non costituisce un
impedimento, ma è piuttosto un grande aiuto. Essa ci tira fuori dalle pastoie
di questo mondo: ci fa liberi, perché
non si può restare prigionieri di ciò “che non è”. E ci fa più attenti, più
sensibili, ci fa più assetati di Lui e più capaci di sentirLo. Conservare nelle
vicissitudini della vita il desiderio di Dio, ricercarne la presenza, soffrire
per il suo silenzio o la sua assenza: in questo consiste molte volte la
esperienza di Lui, finché non vorrà farsi sentire in un modo che Egli solo
conosce.
Non dovremmo
mai dimenticare che è proprio sulla croce che si rivela Dio. Egli è e sta là dove Cristo muore ed è rifiutato da
tutti. La esperienza di Dio è consostanziale alla propria purificazione, fino
alla morte del proprio egoismo. Ecco, allora, che arrivi alla esperienza di Dio
quando dici “sì” a Lui e gli fai spazio
nella tua vita, e la vivi in pienezza quando rinunci totalmente a te stesso
(morte!). Pertanto cominci a “conoscerlo” davvero, quando ti decidi ad
acconsentire alle proposte che Egli ti
fa nell’intimo della coscienza e nel conseguente impegno a prendere sul serio
la vita. Dio, infatti, si identifica con la sua volontà, e se stai nella sua
volontà stai in Lui e, presto, te ne accorgerai. La stessa preghiera si
dimostrerà vera quando suscita il desiderio sincero di entrare nella volontà di
Dio e impegna a compierla. Se la preghiera, anche ripetuta, lascia la vita
sempre allo stesso punto fa sorgere il sospetto che sia ridotta ad una pratica
da sbrigare, ad un obbligo da assolvere e da cui liberarsi attraverso il
materiale compimento. Ma se non c’è un vero desiderio di incontrare il Signore,
di entrare nella sua intimità e di condividere i suoi disegni cioè di fare la sua volontà, si può ancora
parlare di preghiera?
Poiché,
poi, la volontà di Dio è dinamismo
di amore e il comando supremo che tutti
li riassume è quello di amare, sarà soprattutto vivendo nell’amore che si
incontra e si esperimenta Dio. Egli, amandoci, ci fa amanti. E questo vuol dire
che è nell’atto di amare che noi scopriamo Dio-Amore, lo sentiamo presente ed
operante in noi. “Dio è Amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in
Lui” (1 Gv 4,16). Più si entra nelle creature attraverso il dinamismo
dell’amore, più Lo si scopre e Lo si sente presente, pur nella sua
trascendenza.
Non si può, dunque, “conoscere” Dio
e entrare in “contatto” con Lui se non seguendo la sua voce, lasciandosi
guidare, cioè obbedendo. Ciò risulta chiarissimo anche dalla esperienza degli
Apostoli i quali hanno imparato a conoscere Gesù e sono entrati nella sua
intimità soltanto seguendolo. “Venite e vedete”; “vieni e seguimi”; “chiamò
quelli che volle, ed essi andarono da Lui”. Ciò appare chiaramente anche dalla
esperienza di S. Teresa che è entrata definitivamente nella intimità con il
Signore quando si è definitivamente convertita a Lui.
Ne risulta che
la obbedienza (il lasciarsi guidare dalla volontà di Dio) è il principio della comprensibilità, senza di
essa nessuno può percepire la presenza di Dio, comprendere la sua chiamata e
realizzare un contatto personale con Lui. Essa è, in fondo, la fede in atto e
la sua verità. Se è vero, come si esprime S. Ireneo, che “credere a Dio è fare la sua volontà” ne segue che chi non si sente
impegnato a compierla nemmeno crede davvero. A questo punto, se nemmeno si
crede in Lui, appare del tutto evidente come non abbia molto senso parlare di
“esperienza di Dio”. L’esperienza, infatti, comporta la consapevolezza di una
presenza. E non si può sentire come presente ciò che non esiste.
Quanto detto sull’obbedienza non
riguarda solo scelte fondamentali che danno un nuovo orientamento alla vita e
pongono in un positivo atteggiamento di base. E’ chiaro che questo è
indispensabile, non si può infatti “vedere” e “ascoltare” Dio se si è schiavi
dell’orgoglio e dell’egoismo, si è cioè spiritualmente sordi e ciechi. Sappiamo
che il bene si conosce per connaturalità. La sua scoperta, dunque, dipende
soprattutto dalla sincerità della ricerca, dalla onestà e linearità della vita.
La rettitudine morale garantisce la
comprensione e la certezza delle “parole” che Dio ci dice attraverso le varie
mediazioni, più di ogni sottile riflessione, e ci permette di entrare in un
misterioso contatto con Lui. E’ il cuore puro che fa vedere Dio. Lo ha detto Gesù.
Insieme
alla onestà morale è, poi, indispensabile la umiltà intellettuale. La pretesa
di voler prima capire per poter credere blocca totalmente il cammino. Il
bambino non imparerebbe mai l’educazione e gli stessi primi rudimenti di
qualunque scienza se dovesse cominciare col capire. Egli impara la tavola
pitagorica credendo a ciò che il maestro gli insegna. Egli, dunque, impara credendo. La fede non è contro,
ma via alla conoscenza.
Questa
compenetrazione tra fede e conoscenza viene dai teologi espressa con il noto
assioma: “Credo ut intelligam, intelligo ut credam”. Credo per poter capire, e
mi sforzo di capire per poter credere meglio. Ma si tratta di una fede e di una
intelligenza che si ritrovano unificate in atteggiamenti e comportamenti vitali.
“Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza”
( Gb 28,28). E’ questa la lezione che impartisce Giobbe, dall’alto della sua
straordinaria e drammatica esperienza.
Ma è
necessario che la onestà intellettuale e morale di fondo si traduca in scelte concrete anche nelle
ordinarie situazioni dell’esistenza. Perché è proprio nella concretezza della
vita quotidiana ( e quindi spesso nelle piccole cose) che si incontra Dio.
Non è
necessario pensare sempre a grandi gesti o decisioni. Per ritrovare il senso di
Dio, la gioia della sua presenza e della sua compagnia, basta molte volte
cominciare con le piccole cose. Talvolta ci si sente incontrati dal Signore
perché ci si impone una piccola privazione in adesione al Vangelo, o perché ci
si sforza di ricominciare a pregare con un po’ più di impegno, o perché si
compie un gesto disinteressato e nascosto in favore del prossimo, o perché si
ha il coraggio di chiedere e di offrire perdono. Dio si serve di piccole cose
per accendere la luce che ce lo fa intravedere e per suscitare l’amore che ce
lo fa sentire. Tutto ciò significa fedeltà alle “ispirazioni” cioè ai richiami
interiori con cui lo Spirito Santo invita l’anima a un maggiore raccoglimento o
alla pratica di una particolare virtù. Ciò, evidentemente, suppone una
fondamentale attenzione per “sentire” la sua voce e una fondamentale generosità
per “rispondere” con prontezza. E’ così
che ci si lascia prendere dalla sua luce e ci si lascia portare dalla sua
volontà. Ed è così che lo si esperimenta presente nella propria vita.
E’ utile, comunque, ricordare che
un’autentica esperienza di Dio comporta e nasce dalla fede, e non si identifica
affatto con il “sentimento” religioso. Chi è provato da Dio e a Lui si
abbandona, vive in Lui e lo partecipa in profondità, pur trovandosi in una
aridità totale. L’esperienza di fede è l’atto della persona che, anche senza
“sentire” niente, risponde di “sì” a Dio che la chiama e la interpella. In quel
“sì” si scopre la presenza di Dio che entra in noi e noi in Lui. Quello che
qualifica questa esperienza è il fatto che ciò che s’impone alla coscienza non
è il mondo creato o la proiezione dei propri desideri, ma il mondo di Dio. Un
mondo che supera e travolge tutte le nostre certezze, ma del quale cominciamo a
sentirci parte , perché ci entriamo dentro.
Dalla Bibbia
risulta chiaramente che non è l’uomo che cerca ed “esperimenta” Dio, ma è Dio
che prende l’iniziativa e che si impone all’uomo; è Lui che lo mette alla
prova, chiedendogli qualcosa, impegnandolo e mandandolo in missione. Non chiede
il parere, tanto meno il permesso. Si pensi ad Abramo, a Mosè, agli Apostoli, a
Paolo. Dio elegge, chiama e manda. L’incontro
e la conseguente “esperienza” di questo Dio si verifica da parte dell’uomo con
l’ingresso nella sua volontà attraverso la accettazione senza riserve della sua
proposta. In effetti, si esperimenta una cosa quando la “si vive”, quando
“ci si sta”. Si “conosce” Dio solo accogliendolo, come si conosce cosa vuol
dire seguire Cristo solo seguendolo. Di fatto, come dicevamo, si realizza
attraverso il superamento delle proprie
volontà e l’accantonamento dei propri progetti, per aderire e compiere la sua
volontà. E ciò comporta, molto spesso, rinuncia, sacrificio, sofferenza. E’ una esperienza di riflesso che vive nella
rinuncia. Questa esperienza, percepita attraverso la fede, può essere
profondissima, senza che per questo debba necessariamente essere accompagnata
dal sentimento religioso che è normalmente presente in una religiosità ancora
primitiva. Abbiamo già ricordato che essa non si identifica con la emozione
sensibile né con la conoscenza teorica, è un qualcosa che emerge solo nella
obbedienza e nel fiducioso abbandono, conseguenza del fatto che si è lasciato
entrare Dio nella propria vita e che Egli ci rende partecipi della sua.
Chi descrive la sua esperienza di Dio non parla di una
sua conoscenza intellettuale, ma della Sua presenza operativa in lui. E’ sempre
un qualcosa che non si può esprimere a parole, e può essere valutato solo per
l’effetto che produce in noi. Uno degli effetti più significativi è il fenomeno
della conversione o miglioramento della vita. In effetti, come si può
“contattare” Dio e non divenire migliori? Ti senti “toccato” e ne sei convinto
perché ti senti cambiato. Ti senti più buono (Dio è bontà), ti senti più
autentico (Dio è verità), ti senti più libero (Dio è libertà), ti senti più
generoso (Dio è amore), ti senti più sereno e gioioso (Dio è beatitudine senza
fine). Tu senti che Dio c’è e chi Egli è, proprio attraverso l’esperienza di
bontà, verità, libertà, amore, gioia che dentro ti prende e ti trasforma.
E’ necessario,
in ogni caso, tenere costantemente presente che
non siamo noi che possiamo raggiungere e sentire Dio. E’ lui che ci
raggiunge, ci penetra, ci coglie. E’ lui che si fa sentire “toccandoci” con la
sua luce e il suo amore e, con ciò, comunicandosi a noi. Una esperienza
talvolta dolorosissima perché comporta una purificazione radicale, come ci
insegnano i dottori mistici. A quei livelli noi possiamo solo lasciarlo fare.
Però è chiaro che ci possiamo e dobbiamo disporre.
La
prima cosa da fare è quella di essere “attenti” a Lui, nella consapevolezza
della sua presenza. Lui è presente come creatore in tutto, e come amico e padre
nel nostro intimo. Nutrire questa consapevolezza vuol dire imparare a
sentirselo amico e familiare, significa imparare a costruire un rapporto con
Lui.
Questa
attenzione a Lui, come abbiamo appena detto, mette in condizione di percepirne
le ispirazioni, di coglierne i gesti e, allo stesso tempo, rende disponibili e
pronti a seguirne le indicazioni, e quindi a entrare nel suo mondo. Quando lo
si cerca, ci si sforza di rivolgersi a Lui con la mente, il cuore, i desideri,
Lui si fa “sentire”.
La profondità
di tutto questo è, naturalmente, variabile. Ai vertici della mistica si arriva
a sentirsi totalmente immersi e come trasformati nel mare infinito di luce e di
amore che Dio è. Nella parte più intima e profonda di sé, l’anima sente che Dio
le si comunica con immediatezza. Siamo ancora nell’ordine della fede, ma di una
fede così penetrante, luminosa e gustosa da far intravedere già lo splendore
della visione. I mistici parlano di fidanzamento e matrimonio spirituale. Qui
l’esperienza di Dio viene sentita come totale assimilazione a Lui, al pari di
un legno che, bruciando, diventa fuoco e non se ne distingue più. Un passo
ulteriore e siamo… in Paradiso.
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI: ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI Commissariato OCD “San Giuseppe” del Centro Italia ...
ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI SCALZI
ORDINE SECOLARE DEI CARMELITANI
SCALZI
Commissariato OCD “San Giuseppe” del
Centro Italia
(Montecompatri
5-7 ottobre 2012)
Al termine
del nostro incontro di formazione, torniamo alle nostre fraternità con un
impegno preciso su questi tre punti fondamentali:
1.
Dare il
primo posto a Dio: Lui all’origine, Lui lo scopo, Lui il contenuto. Dunque
vivere di Lui e vivere per Lui. Essere strumento, cioè mezzo, e luogo
della sua gloria, cioè diventare santi. Mettere
a disposizione la vita: «Cosa vuoi fare di me?» (Santa Teresa di Gesù).
2.
La
fraternità: «congregavit nos in unum Christi Amor». È Lui che ci unisce
amandoci e noi rispondiamo amandoLo. Ciò che ci unisce tra di noi è il comune
desiderio, la comune ricerca di Lui e l’uso dei mezzi o strumenti che ci
aiutano ad andare a Lui. Uniti a Lui e in Lui saremo trascinati nella sua
missione che è spendere la vita per la salvezza del mondo.
3.
La testimonianza: la fede non si predica, si
mostra. Si è testimoni con il proprio esistere: «Il testimone non ha bisogno di
parlare, basta che esista» (Bergson). «La religione la si vive, non si
propaganda, se la si vive, si propaganda da sè» (Gandhi). C’è un linguaggio
universale che tutti capiscono: l’Amore. «Testimonianza più che militanza»
(card. Scola).
Riprendiamo il nostro cammino sotto lo sguardo e la
protezione della Vergine SS. Madre e Regina Nostra.
Letto e approvato in assemblea liturgica dai
convegnisti.
La
Segreteria generale
sabato 6 ottobre 2012
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: FAMIGLIA CARMELITANA
Chiesa di Santa Maria Della Vittoria Padri Carmelitani Scalzi: FAMIGLIA CARMELITANA: SORELLE E FRATELLI DELLE FRATERNITA’ OCDS NEL TERRITORIO DELLA PROVINCIA ROMANA OCD. AMICI DEL CARMELO. Carissimi fratelli e sor...
FAMIGLIA CARMELITANA
SORELLE E FRATELLI DELLE FRATERNITA’ OCDS NEL
TERRITORIO DELLA PROVINCIA ROMANA OCD.
AMICI
DEL CARMELO.
Carissimi fratelli e sorelle, salve.
Vengo a rettificare e comunicarvi che
l’incontro di tutta la FAMIGLIA
CARMELITANA del nostro Territorio della Provincia Romana: FRATI, ISTITUTI
CARMELITANI, FRATERNITA’ OCDS, AMICI DEL CARMELO, non sarà più il giorno 20
ottobre ma, per motivi di calendario, il giorno 27 OTTOBRE prossimo a MONTECOMPATRI.
Sarà una Giornata dedicata alla presentazione
del libro: “CASTELLO INTERIORE”, secondo
lo schema proposto dalla Commissione centrale, in preparazione al quinto
centenario della nascita della Santa Madre Teresa di Gesù. Il conferenziere
sarà il PADRE EDUARDO SANZ DE MIGUEL o.c.d., scrittore, professore al
Teresianum, membro della Comunità Interprovinciale di S. Panfilo-Roma-
(Edizioni OCD) e responsabile della Rivista “Pregare” che ci presenterà il
Castello interiore come “l’affascinante
viaggio verso la pienezza della vita cristiana”.
Il
programma della Giornata che, in linea di massima, si estenderà dalle 9,30 del
mattino alle 17,30 del pomeriggio, sarà il seguente:
9,30
–Arrivo e accoglienza-; 10,00 –Conferenza-; 12,00 –Santa Messa concelebrata-,
presieduta dal Commissario dell’Italia centrale, P. Gabriele Morra; 13,30 –Pranzo-;
15,00 –Condivisione, riflessioni personali, spiegazioni, comunicazioni-; 17,00
Vespri-; 17,30 –Saluti e partenze-.
Non dovete preoccuparvi per il pranzo, perché
la Casa S. Silvestro sarà lieta di offrirlo a tutti, ma si chiede di avvisare
Padre Basilio, per motivi logistici di preparazione, ai telefoni: 069486048 –
069485023 – cell. 3348366423.
Vi chiedo fraternamente di non mancare all’appuntamento, ma di arricchirlo
con la vostra gradita presenza per una partecipazione numerosa e per sentirci
membri della stessa Famiglia carmelitana.
A tutti voi, fratelli e sorelle, il mio
affettuoso saluto in Cristo.
Roma, 06 ottobre 2012.
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